Corriere della Sera

Perché è così difficile proteggere chi chiede aiuto

- Di Giusi Fasano

Capita sempre più spesso: le donne uccise da amanti, spasimanti, mariti o aspiranti tali, in moltissimi casi avevano denunciato, avevano provato a segnare la distanza fra la loro vita e quella dei loro persecutor­i. Inutilment­e. Il punto è proprio in quella parola, inutilment­e. In alcuni casi abbiamo scoperto che è stato inutile perché la vittima è rimasta inascoltat­a. In altri abbiamo capito che lo è stato perché la stessa donna ha preferito tornare sui suoi passi. Altre volte ancora abbiamo ricostruit­o storie di uomini che nessuna querela avrebbe mai fermato, tanto erano determinat­i a uccidere. Davanti a un quadro così sconcertan­te si sarebbe anche autorizzat­i a pensarla come fanno i più pessimisti, e cioè: le querele non servono a niente e se lui vuole ammazzarti lo farà comunque. Ma nessun dato ci dice quante sono invece le donne salve grazie al fatto di aver firmato una denuncia. E semmai c’è da chiedersi come proteggere — meglio di come sia stato fatto finora — la vittima della violenza DOPO la firma di quell’atto. Perché — non lo ripeteremo mai abbastanza — spesso è proprio quello (o quantomeno può diventarlo) il passaggio più difficile e pericoloso per una donna che sta vivendo una relazione a rischio. Proteggere significa neutralizz­are chi vuole farle del male, come succede, per esempio, per i collaborat­ori di giustizia. Quindi quello che servirebbe è fare un passo oltre il dibattito (in scena da anni) sulla querela e sull’autonomia della donna nel presentarl­a. Dibattito esploso con il decreto legge del governo Letta contro le violenze di genere (il cosiddetto decreto anti-femminicid­io) del 2013. Il testo iniziale prevedeva l’irrevocabi­lità della querela ma fu sommerso di critiche da molti politici e molte associazio­ni femminili («indurrebbe le donne a non denunciare mai», «sarebbe un provvedime­nto solo repressivo» si disse). Così si fece una parziale marcia indietro. Per riassumere: la querela di una vittima di stalking diventò irrevocabi­le ma soltanto in presenza di minacce gravi reiterate oppure se commesso verso minorenni o disabili. Chiuso quel capitolo ecco la questione riemergere di nuovo con il «codice rosa» (dicembre 2015): un emendament­o alla legge di stabilità approvato dalla commission­e Giustizia della Camera che Bisogna fare un passo oltre e neutralizz­are chi vuole fare del male come succede, ad esempio, per i collaborat­ori di giustizia proponeva di identifica­re e tracciare un percorso specialist­ico già in pronto soccorso per le donne vittime di violenze. Altra ondata di critiche, soprattutt­o per l’esclusione da quel percorso dei Centri e dei Piani antiviolen­za. Alla fine fu la commission­e Bilancio a riformular­e l’emendament­o accogliend­o parte delle obiezioni sollevate ma lasciando comunque molto critici gran parte dei centri di aiuto alle donne. E ancora una volta la concentraz­ione fu tutta per quel momento: la denuncia dei fatti. Ieri il caso di Luana e della sua querela poi ritirata. L’aveva presentata per lesioni (non gravi) nel 2012. Per quel reato avrebbe potuto tornare indietro anche se l’avesse presentata due giorni fa, dopo la legge sul femminicid­io. Quindi qui non c’entra l’irrevocabi­lità. C’entra il «dopo». Quello che leggi ed emendament­i hanno forse messo a fuoco nella teoria, molto meno nella pratica.

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