Perché è così difficile proteggere chi chiede aiuto
Capita sempre più spesso: le donne uccise da amanti, spasimanti, mariti o aspiranti tali, in moltissimi casi avevano denunciato, avevano provato a segnare la distanza fra la loro vita e quella dei loro persecutori. Inutilmente. Il punto è proprio in quella parola, inutilmente. In alcuni casi abbiamo scoperto che è stato inutile perché la vittima è rimasta inascoltata. In altri abbiamo capito che lo è stato perché la stessa donna ha preferito tornare sui suoi passi. Altre volte ancora abbiamo ricostruito storie di uomini che nessuna querela avrebbe mai fermato, tanto erano determinati a uccidere. Davanti a un quadro così sconcertante si sarebbe anche autorizzati a pensarla come fanno i più pessimisti, e cioè: le querele non servono a niente e se lui vuole ammazzarti lo farà comunque. Ma nessun dato ci dice quante sono invece le donne salve grazie al fatto di aver firmato una denuncia. E semmai c’è da chiedersi come proteggere — meglio di come sia stato fatto finora — la vittima della violenza DOPO la firma di quell’atto. Perché — non lo ripeteremo mai abbastanza — spesso è proprio quello (o quantomeno può diventarlo) il passaggio più difficile e pericoloso per una donna che sta vivendo una relazione a rischio. Proteggere significa neutralizzare chi vuole farle del male, come succede, per esempio, per i collaboratori di giustizia. Quindi quello che servirebbe è fare un passo oltre il dibattito (in scena da anni) sulla querela e sull’autonomia della donna nel presentarla. Dibattito esploso con il decreto legge del governo Letta contro le violenze di genere (il cosiddetto decreto anti-femminicidio) del 2013. Il testo iniziale prevedeva l’irrevocabilità della querela ma fu sommerso di critiche da molti politici e molte associazioni femminili («indurrebbe le donne a non denunciare mai», «sarebbe un provvedimento solo repressivo» si disse). Così si fece una parziale marcia indietro. Per riassumere: la querela di una vittima di stalking diventò irrevocabile ma soltanto in presenza di minacce gravi reiterate oppure se commesso verso minorenni o disabili. Chiuso quel capitolo ecco la questione riemergere di nuovo con il «codice rosa» (dicembre 2015): un emendamento alla legge di stabilità approvato dalla commissione Giustizia della Camera che Bisogna fare un passo oltre e neutralizzare chi vuole fare del male come succede, ad esempio, per i collaboratori di giustizia proponeva di identificare e tracciare un percorso specialistico già in pronto soccorso per le donne vittime di violenze. Altra ondata di critiche, soprattutto per l’esclusione da quel percorso dei Centri e dei Piani antiviolenza. Alla fine fu la commissione Bilancio a riformulare l’emendamento accogliendo parte delle obiezioni sollevate ma lasciando comunque molto critici gran parte dei centri di aiuto alle donne. E ancora una volta la concentrazione fu tutta per quel momento: la denuncia dei fatti. Ieri il caso di Luana e della sua querela poi ritirata. L’aveva presentata per lesioni (non gravi) nel 2012. Per quel reato avrebbe potuto tornare indietro anche se l’avesse presentata due giorni fa, dopo la legge sul femminicidio. Quindi qui non c’entra l’irrevocabilità. C’entra il «dopo». Quello che leggi ed emendamenti hanno forse messo a fuoco nella teoria, molto meno nella pratica.
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