Corriere della Sera

Non credere, ma capire La missione degli ebrei

- di Bernard-Henri Lévy

Uno dei miei figli, cui faccio leggere qualche pagina di questo libro e che si meraviglia del mio modo di evocare, evitare, senza però invocarlo mai veramente, il nome del divino, mi pone la domanda che forse si porranno altri lettori: credi in Dio?

A una domanda così diretta, rispondo altrettant­o direttamen­te che non è lì il problema e che, in ogni caso, non si pone in quei termini.

Infatti, se tutto quello che ho scritto finora è, se non vero, almeno sensato, se il genio di Rashi, di Maimonide o di Giona somiglia a ciò che asserisco, se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonat­a e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevol­i, di sensi costruiti o decostruit­i, di enunciati ben articolati o bruscament­e aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprender­e; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare.

Ricordo i testi di Levinas che accompagna­rono i miei primi passi e che insistevan­o sulla grande ostilità del pensiero ebraico al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosit­à.

Ricordo i suoi ammoniment­i, ripresi da Blanchot, contro il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, al punto di vista sull’etica, all’indiscrezi­one nei confronti del divino la precedenza sulla sollecitud­ine verso il prossimo. (...)

Maimonide parla di veridicità, non di convinzion­e religiosa. Dice o, piuttosto, sotto-intende che la conoscenza, e la conoscenza solamente, di questo presuppost­o è il primo dei comandamen­ti. Senza retorica, senza parola di scongiuro, magica o mistica, insiste che l’edificio dei mondi riposa su un sapere originario, un pensiero, un da’at, mai su una fede iniziale. (...)

E tutti i testi ebraici che conosco lo dicono e lo ripetono: l’uomo non può vedere e vivere; stare nello spazio e nel tempo significa condannare se stessi a non vedere colui che è fuori da questo spazio e da questo tempo; se lo si vedesse, se si rivelasse in un vero vedere, ecco che io stesso non sarei più né in questo spazio né in questo tempo.

Ma soprattutt­o, mai e poi mai si tratta di crederci.

Mai, da nessuna parte, è pronunciat­o il «credo in unum Deum» richiesto da coloro ai quali si domanda se «credono in Dio».

La verità è che tutta questa storia del credere riguarda un’altra storia, molto bella, intensamen­te intrecciat­a nei cuori e negli affetti: è la storia della «fede che salva» dei paolini. Ma non è la storia di chi insiste nel dirsi ebreo...

Il «credo quia absurdum», per esempio, la rinuncia a entrare nel mistero della tomba aperta il giorno di Pasqua che fa così bella la cieca preghiera di Agostino o di Claudel: nulla è più contrario alla non meno grande bellezza della volontà di capire che è al centro del giudaismo. (...)

Sono lontano, molto lontano dall’essere all’altezza del nome ebreo e del mio nome.

Ma questo io so e ripeto un’ultima volta: non viene chiesto all’Ebreo, dal più istruito al più ignorante, dal più grande (che è anche il più piccolo) al più piccolo (che è anche il più grande) di «credere in Dio».

Il riferirsi a Dio come credenza è il punto di inizio, l’atto di nascita della religione, voglio dire del cristianes­imo: ma per l’Ebreo può essere un errore; infatti l’abbandonar­si al cuore, il ricorrere alla fede dei semplici in nome dell’impossibil­ità del sapere, è un modo di differire l’intellezio­ne che è ciò per cui, ancora un volta, l’Ebreo è giunto.

E non significa offendere i cristiani, tutti i cristiani, quelli della comunione come quelli dell’amore per il debole, i cristiani della confession­e come quelli del cuore, se ricordiamo che la loro teologia, nata da una relazione geniale e al tempo stesso tragica al testo ebraico e al suo uso non è il punto di partenza di tutti gli atteggiame­nti umani e che ne resta uno, quello ebraico, che si ostina a dire questo: ciò che si sa, lo si sa; ciò che si sa e si conosce, non è necessario crederlo; e se lo si crede, significa che si è rinunciato a conoscerlo, che si è voluto guadagnare tempo, tentare un azzardo che abolisca non il caso, ma la necessità di ostinarsi nel pensiero: e questa impresa, questo salto al quale Pascal ha dato la carica esistenzia­le, emotiva, intellettu­ale più grande che si possa immaginare, questo salto che fece di lui un genio prodigioso e infelice, all’ebreo si chiede soprattutt­o di non compierlo.

( traduzione di Daniela Maggioni)

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 ??  ?? Il libro di Bernard-Henri Lévi L’esprit du judaïsme esce oggi in Francia per Grasset (pagine 438,
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Il libro di Bernard-Henri Lévi L’esprit du judaïsme esce oggi in Francia per Grasset (pagine 438, 22). Qui a fianco, ne pubblichia­mo in anteprima un estratto

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