Corriere della Sera

IL MOVIMENTO VUOLE SCHIVARE LA CALAMITA DI PALAZZO CHIGI

- Di Massimo Franco

La «strategia della multa» che il Movimento 5 Stelle si è dato a Roma per dissuadere potenziali dissenzien­ti non deve sorprender­e. È figlia del timore di una campagna acquisti da parte del Pd renziano. Ed esprime un’idea totale dell’appartenen­za, superiore a quella dei partiti. Va anche detto che è la risposta discutibil­e ad un problema accentuato­si in tutte le forze politiche: il trasformis­mo, parlamenta­re e locale. Sotto questo aspetto, la decisione interpreta un malumore diffuso.

Come esegeta di Beppe Grillo e Gianrobert­o Casaleggio, l’attore e Nobel per la Letteratur­a, Dario Fo, ieri ha spiegato che si tratta di «un atto di difesa contro i tradimenti di disonesti e infedeli: un deterrente del M5S che gli evita di essere bastonato e fatto cornuto». Al di là del linguaggio colorito, l’intento è proprio quello: scoraggiar­e i «traditori», come vengono definiti. Eppure, nella severità preventiva si coglie subito un difetto di analisi. Né basta precisare che la misura precauzion­ale sarà presa a Roma per la situazione delicata: per ora, infatti, altrove non vale il «codice Roma».

L’obiezione è più di fondo. E chiama in causa sia la selezione della classe dirigente dei M5S, sia la proposta politica offerta agli elettori e agli eletti. Forse, la prima questione è perfino più intrigante della seconda. La domanda, infatti, è come mai candidati scelti attraverso la mitica democrazia-Internet della «Rete», produca dirigenti così poco affidabili da dovere essere minacciati con multe da 150 mila euro. Se il meccanismo è quel paradiso di trasparenz­a e partecipaz­ione che Grillo e i suoi fedelissim­i accreditan­o, non dovrebbe accadere.

Il secondo aspetto riguarda la strategia. L’orgogliosa autoesclus­ione dal «Palazzo» e la

Le mosse Dietro la decisione di multare i trasformis­ti si scopre la preoccupaz­ione del partito di Grillo e Casaleggio

delegittim­azione del sistema rimangono il faro e la ragione dei successi del M5S. Eppure stanno mostrando anche limiti evidenti. Quando Luigi Di Maio, vicepresid­ente della Camera e volto istituzion­ale del movimento, sostiene che «il vincolo di mandato è sacrosanto per chi vuole fare politica onestament­e», induce senza volerlo a una lettura opposta. Al di là della contraddiz­ione con la Costituzio­ne, se il M5S è composto solo da «onesti» le multe dovrebbero essere inutili.

I casi di Quarto, dove la magistratu­ra ipotizza infiltrazi­oni della camorra in una giunta dei «Cinque stelle», e di Bagheria, nella bufera per i «gettoni di presenza» dei consiglier­i, sono circoscrit­ti, è vero. Ma evocano il fantasma di brutte sorprese a livello locale e nazionale. Così come disorienta­no le oscillazio­ni sulla legge Cirinnà: prima con una perentoria adesione al testo del Pd; poi, con Grillo, lasciando di colpo «libertà di coscienza»; e, davanti a una rivolta, ribadendo il «sì». Ci fossero state le multe, con le unioni civili il M5S si sarebbe arricchito.

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