IL MOVIMENTO VUOLE SCHIVARE LA CALAMITA DI PALAZZO CHIGI
La «strategia della multa» che il Movimento 5 Stelle si è dato a Roma per dissuadere potenziali dissenzienti non deve sorprendere. È figlia del timore di una campagna acquisti da parte del Pd renziano. Ed esprime un’idea totale dell’appartenenza, superiore a quella dei partiti. Va anche detto che è la risposta discutibile ad un problema accentuatosi in tutte le forze politiche: il trasformismo, parlamentare e locale. Sotto questo aspetto, la decisione interpreta un malumore diffuso.
Come esegeta di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, l’attore e Nobel per la Letteratura, Dario Fo, ieri ha spiegato che si tratta di «un atto di difesa contro i tradimenti di disonesti e infedeli: un deterrente del M5S che gli evita di essere bastonato e fatto cornuto». Al di là del linguaggio colorito, l’intento è proprio quello: scoraggiare i «traditori», come vengono definiti. Eppure, nella severità preventiva si coglie subito un difetto di analisi. Né basta precisare che la misura precauzionale sarà presa a Roma per la situazione delicata: per ora, infatti, altrove non vale il «codice Roma».
L’obiezione è più di fondo. E chiama in causa sia la selezione della classe dirigente dei M5S, sia la proposta politica offerta agli elettori e agli eletti. Forse, la prima questione è perfino più intrigante della seconda. La domanda, infatti, è come mai candidati scelti attraverso la mitica democrazia-Internet della «Rete», produca dirigenti così poco affidabili da dovere essere minacciati con multe da 150 mila euro. Se il meccanismo è quel paradiso di trasparenza e partecipazione che Grillo e i suoi fedelissimi accreditano, non dovrebbe accadere.
Il secondo aspetto riguarda la strategia. L’orgogliosa autoesclusione dal «Palazzo» e la
Le mosse Dietro la decisione di multare i trasformisti si scopre la preoccupazione del partito di Grillo e Casaleggio
delegittimazione del sistema rimangono il faro e la ragione dei successi del M5S. Eppure stanno mostrando anche limiti evidenti. Quando Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e volto istituzionale del movimento, sostiene che «il vincolo di mandato è sacrosanto per chi vuole fare politica onestamente», induce senza volerlo a una lettura opposta. Al di là della contraddizione con la Costituzione, se il M5S è composto solo da «onesti» le multe dovrebbero essere inutili.
I casi di Quarto, dove la magistratura ipotizza infiltrazioni della camorra in una giunta dei «Cinque stelle», e di Bagheria, nella bufera per i «gettoni di presenza» dei consiglieri, sono circoscritti, è vero. Ma evocano il fantasma di brutte sorprese a livello locale e nazionale. Così come disorientano le oscillazioni sulla legge Cirinnà: prima con una perentoria adesione al testo del Pd; poi, con Grillo, lasciando di colpo «libertà di coscienza»; e, davanti a una rivolta, ribadendo il «sì». Ci fossero state le multe, con le unioni civili il M5S si sarebbe arricchito.