Siamo indietro su produttività e concorrenza
PER CRESCERE
Il dato sulla crescita del prodotto lordo italiano (+0,1% nel quarto trimestre e +0,6% nella media destagionalizzata del 2015) conferma purtroppo quanto scrivevo su queste pagine il 21 agosto scorso, dopo la pubblicazione del Pil dei primi sei mesi dell’anno: «È inutile nasconderlo. Qualcosa non funziona più come previsto nel sistema economico italiano».
Ancora una volta, infatti, le previsioni fatte solo qualche mese prima — non solo dal governo ma anche da istituti nazionali e internazionali — si sono rivelate troppo ottimistiche. Nonostante il forte calo dei tassi d’interesse provocato dagli interventi di politica monetaria da parte della Bce, nonostante l’indebolimento dell’euro nei confronti del dollaro, il crollo dei prezzi dell’energia e la manovra fiscale espansiva, l’economia italiana è cresciuta meno della metà del resto dell’area dell’euro. A malapena viene recuperato il calo dell’anno precedente. La ripresa si è peraltro affievolita nel corso del 2015. Il ritmo di crescita registrato nell’ultimo trimestre (+0,1%) è infatti più debole di quello del terzo trimestre (+0,2%), che è a sua volta inferiore a quello del secondo (0,3%) e del primo dello scorso anno (0,4%). Su questa base, la crescita del 2016 rischia di assestarsi intorno all’1%, o forse di meno se si concretizzano i timori di un ulteriore rallentamento dell’economia mondiale.
La flebile ripresa economica potrebbe rimettere in questione il quadro di finanza pubblica per l’anno in corso, e rinviare, per l’ennesima volta, il punto di svolta del debito pubblico e una sua riduzione sostenibile. Soprattutto, emerge chiaramente che la strategia di politica economica, basata soprattutto sullo stimolo della domanda pubblica, non è sufficiente: «il cavallo non beve». Non che non abbia sete. Al contrario. In realtà non ci riesce, perché ha il morso troppo stretto. L’economia italiana è ancora imbrigliata, troppo rigida, incapace di reagire come dovrebbe agli
Burocrazia
Serve rimuovere gli ostacoli che frenano chi vuole investire e creare posti di lavoro stimoli che le vengono dati.
Il nocciolo del problema è la produttività, che è calata su un livello più basso di quello di 15 anni fa, il risultato peggiore tra i Paesi avanzati. La competitività, esterna ed interna, si è così deteriorata, e non si è aggiustata dopo la crisi.
La ricetta per uscire dal ristagno è sempre la stessa: le riforme strutturali. Va tuttavia applicata in modo tenace e con maggior continuità. A questo punto ci vuole una dose da cavallo. Il Jobs act ha aperto la strada. Bisogna seguirla con vere riforme, anche negli altri settori che rappresentano un ostacolo a chi vuole investire e creare posti di lavoro in questo Paese. Si tratta della pubblica amministrazione, della giustizia, delle regole della concorrenza. Anche per quel che riguarda il mercato del lavoro, il compito non si è esaurito con il Jobs act. Per incentivare la produttività è necessario decentrare la contrattazione salariale al livello delle imprese, come è il caso dei Paesi più efficienti, in particolare la Germania. Confindustria e sindacati non si sono messi d’accordo, dopo troppi mesi di discussione. È venuto il momento che il governo prenda l’iniziativa e adotti con urgenza provvedimenti che cambino le basi delle relazioni industriali, per allineare l’evoluzione delle remunerazioni alla produttività.
Il dato deludente sulla crescita del 2015 non deve scoraggiare, ma nemmeno essere negato o dare adito ad alibi. Deve solo spingere a fare di più. Più rapidamente.