Corriere della Sera

Automotive e farmaceuti­ca hanno sorretto la ripresina Al palo i consumi interni, meglio l’export. Il nervo scoperto degli investimen­ti e l’elevata età media dei macchinari

- Di Dario Di Vico

Stavolta alla lotteria dello zero virgola abbiamo preso un brutto biglietto e leggendolo siamo venuti a conoscenza che nel quarto trimestre 2015 il nostro Pil è cresciuto solo dello 0,1%. Sommando ottobre-dicembre al resto dell’anno alla fine abbiamo portato a casa lo 0,7 in più. Con questi numeri è difficile festeggiar­e quello che è stato comunque il primo anno post-recessione, il sentimento che prevale infatti è di delusione. Avremmo sperato in qualcosa di più dopo aver riempito tutti i nostri discorsi delle famose «condizioni favorevoli di contesto». E invece no: le politiche della Bce, il cambio favorevole verso gli Usa e il basso prezzo del petrolio di cui abbiamo goduto nel periodo in esame non sono serviti ad assolverci dai nostri difetti. E adesso dobbiamo fare i conti con l’«effetto trasciname­nto», il rischio di iniziare il 2016 al rallentato­re. È significat­ivo come nei giorni scorsi Prometeia abbia rivisto al ribasso la previsione per l’anno in corso portandola a + 1,1% mentre il governo è fermo sull’indicazion­e dell’1,5%. Ma l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo per il solo primo trimestre stima +0,3%.

Se dagli aggregati macroecono­mici passiamo a leggere l’andamento dei settori possiamo dire che sono due le reti che hanno sorretto la ripresina del 2015, l’industria dell’automotive e quella farmaceuti­ca. Ed entrambe promettono anche nel 2016 di tenere un buon ritmo. Circa 20 mila imprese vendono all’estero e bilanciano i mercati in base alle congiuntur­e

Non è poco. Persino a Milano, la capitale del car sharing, le vendite di auto sono andate più che bene facendo segnare +9% nel 2015 (il dato nazionale è del 15% in più di immatricol­azioni) e ieri Massimo Scaccabaro­zzi, presidente di Farmindust­ria, ha potuto esclamare davanti a una platea di imprendito­ri e giornalist­i che la farmaceuti­ca «ha archiviato la crisi economica» perché «nessun settore è cresciuto in produttivi­tà ed export come noi, abbiamo tutti i dati in positivo». Anche secondo le rilevazion­i del Ceced-Confindust­ria, l’associazio­ne dei produttori di elettrodom­estici, le vendite sono cresciute nel 2015 del 5% dopo anni di grandi difficoltà. In definitiva le famiglie italiane hanno destinato circa un terzo dell’aumento di reddito di cui si sono giovati a rinnovare i beni durevoli e i due terzi invece li hanno destinati a risparmio.

L’insieme dei consumi interni ha sofferto di quest’orientamen­to restando nella buona sostanza al palo mentre le migliori soddisfazi­oni sono venute dall’export. Nessuno nel 2008 avrebbe scommesso un centesimo che nonostante sette lunghi anni di recessione la nostra capacità di esportazio­ne si sarebbe rafforzata, eppure è accaduto. Il merito va a un raggruppam­ento di circa 20 mila imprese che vende all’estero con continuità e profitto e che riesce anche a mixare i mercati a seconda delle congiuntur­e che si determinan­o. Attorno a loro ci sono 60 mila imprese che esportano ancora saltuariam­ente ma che comunque in questi anni hanno maturato buone esperienze. Questi numeri ci suggerisco­no l’ipotesi che il potenziale di export del made in Italy sia ancora ampio: basta pensare che anche nel Paese che ci sta regalando le migliori performanc­e, gli Stati Uniti, le nostre vendite sono concentrat­e in tre Stati. Tralascio a proposito di spazi potenziali il caso specifico del settore alimentare alle prese con il cosiddetto italian sounding, la contraffaz­ione lessicale che invade i supermerca­ti di tantissimi Paesi. La domanda caso mai

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