Corriere della Sera

In fuga con Salam «La mia famiglia distrutta da una mina»

- © RIPRODUZIO­NE RISERVATA dal nostro inviato a Killis Lorenzo Cremonesi

Quando piange Mohammad lo fa di nascosto. Si mette in un angolo con il volto verso il muro e lascia che le lacrime scorrano libere sulle guance annerite dalla barba incolta. Ma è solo una questione di secondi. Un attimo di debolezza. Tanto non serve a nulla. A chi interessa l’ennesimo siriano che piange? E, comunque, lui non se lo può permettere. Da quando quella maledetta mina è scoppiata nella pianura verso Azaz, deve occuparsi di tutto. E fingere un’allegria che proprio non trova. La figlia di tre anni, Salam, lo fissa con aria più che interrogat­iva. Con quello sguardo attento, insistente, che hanno i bambini. Solo uno stupido potrebbe pensare che non abbia capito nulla. «Salam sa che la mamma è morta, proprio davanti a lei. E anche suo fratello Abdullah di dieci anni, che la teneva per mano. Lo sa, ma chiede di loro. E io in qualche modo devo rassicurar­la. Anche perché c’è un’altra sorella, Shaad di 14 anni, che sta male, potrebbe perdere l’occhio destro. Dobbiamo aiutarci a vicenda», spiega.

Lasciate che ve li presenti. A modo loro sanno di essere ingombrant­i nella nuvola di dolore greve, impotente, che li avviluppa. Gli ufficiali turchi li trattano con ordini bruschi. E loro accettano supini, l’importante è uscire dall’inferno da dove vengono. Sono sporchi dopo quattro giorni trascorsi da profughi in piena guerra, terrorizza­ti dai bombardame­nti russi, dagli spari tra i campi coltivati e le macchie di vegetazion­e, con i maglioni pesanti, le scarpe infangate, le giacche strappate. Indossano i soli vestiti che hanno. Li abbiamo incontrati nei corridoi dell’ospedale turco di Killis. Occhi sperduti, il bisogno di un sorriso, una minima solidariet­à. È stato sufficient­e donare a Salam un succo di frutta e pochi biscotti al cioccolato per sciogliere Mohammad. «Lunedì mattina alle 4 erano già sei ore che camminavam­o nei campi per abbandonar­e il nostro villaggio di Al Bab, controllat­o da Isis sin dal 2013, e raggiunger­e le linee delle milizie sunnite sulla via del confine turco. Eravamo almeno 150 persone, con tanti bambini che si lamentavan­o per la stanchezza. Quando una donna davanti ha calpestato una grossa mina piantata da Isis. Lo scoppio ha ucciso almeno una ventina di noi. Mio figlio Abdullah aveva la testa quasi staccata. Rima Iunes, mia moglie, è stata investita dalle schegge sul fianco destro, ha perso il braccio e la gamba, è morta dissanguat­a in meno di due minuti. Aveva 32 anni. Poi ho notato che Shaad aveva il volto insanguina­to», racconta.

Quindi il ritorno al villaggio con i cadaveri. «I miliziani di Isis sono stati durissimi. Si sono presi i nostri soldi e i pochi gioielli che aveva addosso mia moglie. Ci hanno accusato di essere dei traditori. Quindi hanno reclutato d’ufficio i miei figli più grandi: Ahmad, 18 anni, e Mohammad, 16. Io mi ero sempre opposto. Isis utilizza i giovani come carne da cannone. Li mandano in prima linea senza alcun addestrame­nto, muoiono nel giro di poche settimane». Mohammad non sa che fare. Ma almeno per lui e le due ragazze la disgrazia dell’occhio ferito di Shaad si traduce in un lasciapass­are insperato. Isis concede il nulla osta per la ripresa della marcia verso la Turchia. Eppure il giudizio di Mohammad nei confronti dei jihadisti resta di fuoco. «Sono fanatici che cercano di imporre una versione estremista dell’Islam. Vietano di fumare, vengono nelle nostre case per predicare come dobbiamo trattare le nostre donne, pretendono persino di modificare i nostri modi di parlare. E i loro capi, tanti stranieri arrivati da Arabia Saudita, Afghanista­n, Cecenia, Tunisia, cui negli ultimi tempi si sono aggiunti numerosi siriani, sono crudeli, pronti a sacrificar­ci tutti pur di continuare a combattere». Da mesi lui e Rima parlavano di partire. Le condizioni di vita stavano diventando insopporta­bili. Niente elettricit­à, niente acqua corrente, poco cibo e tanta paura. «Io effettuo piccoli trasporti con il mio trattore a tre ruote. Ma ormai mi ero ridotto a guadagnare meno di 2 mila lire siriane al giorno. Nulla, se si pensa che una bombola piccola di gas da cucina costa 16 mila lire», sottolinea. A spingerli a decidere sono stati tuttavia i bombardame­nti russi. «Terrore puro. Fanno continue stragi di civili. Gli americani almeno mirano al quartier generale di Isis. I russi no, sparano a casaccio», ricorda. E intanto accarezza i capelli di Shaad distesa nel letto, appena operata in questo ospedale dove medici e infermieri turchi parlano una lingua che lei non conosce. Siamo stati con loro per diverse ore negli ultimi due giorni. E Shaad non ha mai sorriso, ma neppure si è lamentata. Tace questa ragazzina con il volto gonfio, tumefatto dalle schegge. «Non ho ancora capito se l’occhio verrà salvato», sussurra Mohammad. E lo ripete piano, fuori dalla stanza, che questa notte farà anche da bivacco per lui e Salam.

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Insieme Mohammad con la figlia Salam, 3 anni: «Salam sa che la mamma e il fratello sono morti, ma chiede di loro»

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