Corriere della Sera

La bambina kamikaze non s’è fatta esplodere: «Nella folla, mio padre»

Orrore in Nigeria, strage nel campo profughi Ma una delle tre attentatri­ci si è fermata in tempo

- Michele Farina

Non erano telecomand­ate, le ragazzine arrivate l’altra sera al campo profughi di Dikwa. Per farsi saltare in aria tra la folla dovevano compiere un gesto. Un atto volontario. Consapevol­e. Come premere un bottone, o tirare un filo. Tre ragazzine con pochi anni alle spalle e un giubbetto esplosivo, facile da nascondere sotto la veste lunga che indossano le donne di ogni età nel Nordest della Nigeria. Erano arrivate accompagna­te da uomini di Boko Haram, i loro diavoli custodi, confusi nel quotidiano flusso di disperati e affamati in fuga da una guerra che non conosce né fronti né oasi. Ai cancelli del rifugio abitato da 52 mila persone (erano solo 7 mila nel settembre scorso), i guardiani le hanno accolte senza diffidenza. Tre ragazzine come tante, l’ultima notte della loro vita.

All’alba, due di loro si sono messe in fila tra la gente che aspettava di mangiare quel poco che c’è nei campi governativ­i, tra secchi di plastica e pentoloni con più broda che cibo. Sono andate fino in fondo, obbedendo agli ordini, compiendo quel piccolo gesto.

Ma la terza no, la terza ci ha ripensato. Prima ha cercato di convincere le compagne: parole vane, bisbigli nella notte, sdraiate per terra con un peso enorme sullo stomaco vuoto. E quando i diavoli custodi le hanno lasciate libere, libere di schiacciar­e quel bottone mortale, la ragazzina che non voleva uccidere, più che morire, si è appartata. Si è tolta la bomba di dosso, l’ha lasciata a terra. Non ha fatto in tempo a dare l’allarme, o non ci ha pensato. Il doppio boato delle compagne l’ha preceduta: 60 corpi in pezzi, sparsi persino nelle pentole degli affamati.

La terza kamikaze è stata trovata in lacrime. Al principio i vigilantes non le credevano. Lei li ha portati dove si era spogliata della veste esplosiva, e ha cominciato a raccontare.

Tre attentatri­ci come tante. Non sono più una novità, in Nigeria sono diventate armi di routine. Le più facili per aggirare i controlli. Almeno 100 tra donne e bambine, secondo la conta dell’Onu, sono state usate da Boko Haram come kamikaze negli ultimi due anni. Il gruppo diretto da Abubakar Shekau, ex raccoglito­re di bottiglie vuote al mercato di Maiduguri, ha cominciato a utilizzarl­e nel giugno 2014. Le autorità nigeriane tendono ad accreditar­e la versione del telecomand­o, ha detto al New York Times Leila Zerrougui, alto rappresent­ante Onu per i bambini impiegati nei conflitti. Secondo questa narrativa, le bambine sono inconsapev­oli e vengono fatte esplodere a distanza. Se è possibile fare una graduatori­a nell’orrore, questa è forse la versione meno terribile. Bambine ignare, usate come In meno di due anni, oltre cento ragazze sono state impiegate in attacchi suicidi carne (e non cervelli) da macello. La storia della sopravviss­uta di Dikwa prova il contrario. Sanno cosa stanno per compiere.

Sapevano, le tre kamikaze mandate l’altra sera in un campo di rifugiati a metà strada tra il Camerun e Maiduguri, capoluogo del martoriato Stato del Borno. Il governo nigeriano ripete che i jihadisti di Boko Haram (responsabi­li della morte di 20 mila persone negli ultimi sei anni e di 2,5 milioni sfollati) hanno perso terreno e appoggi. Le ultime stragi dimostrano che non hanno perso la Soccorsi Feriti trasportat­i all’ospedale di Maiduguri, dopo l’attacco kamikaze che ha fatto strage al campo profughi di Dikwa, dove vivono 50 mila sfollati in fuga da Boko Haram (Ap/Jossy Ola) capacità di uccidere civili. Di braccarli persino nei rifugi allestiti dal governo, dove dovrebbero sentirsi protetti.

L’amministra­zione del nuovo presidente Muhammadu Buhari, eletto nel 2015, ha fretta di dichiarare vinta e archiviata questa guerra sporca, guerra in cui anche le forze di sicurezza si sono macchiate di crimini spaventosi contro la popolazion­e. Secondo le autorità, il continuo ricorso alle donne kamikaze è una prova della presunta debolezza di Boko Haram. È vero, i terroristi sono stati costretti a ritirarsi da alcune zone (erano arrivati a controllar­e un territorio vasto quando l’Italia settentrio­nale). Ma le loro recenti azioni dimostrano che possono colpire impunement­e: radendo al suolo villaggi interi o sguinzagli­ando kamikaze nei campi profughi.

La manodopera non gli manca. I jihadisti nigeriani affiliati all’Isis hanno rapito migliaia di civili in questi anni. Soprattutt­o donne e bambine (chi si ricorda le duecento studentess­e di Chibok?). Indottrina­ndole e schiavizza­ndole. Molte date in moglie ai combattent­i. Le tre ragazzine arrivate a Dikwa facevano parte di questo «bottino» di guerra. L’attivista Modu Awami, che ha assistito all’interrogat­orio della sopravviss­uta, ha detto al Guardian che la terza kamikaze era combattuta. Aveva paura di disobbedir­e agli ordini. Ma più forte è stata la paura di uccidere. In quella bolgia di profughi sapeva che poteva esserci il padre, e forse alcuni dei suoi fratelli.

Non conosciamo il suo nome. Ma lo conoscono i suoi diavoli custodi. Al sollievo di essere viva, di non aver ucciso, si aggiungerà nelle prossime notti la paura di un’altra cattura. La vendetta di Boko Haram. C’è un posto, per questa giovane aliena, che può dirsi sicuro?

Squadra della morte

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