Corriere della Sera

BANCHE COOPERATIV­E, IL TEMPO PERDUTO E QUELLE DOMANDE SENZA UNA RISPOSTA

- Di Daniele Manca

La riforma è storica come storico è stato il decreto che nel gennaio del 2015 ha dato 18 mesi di tempo alle banche popolari per trasformar­si in società per azioni. Posto che a tutt’oggi soltanto due (Ubi e Veneto Banca) hanno cambiato, mercoledì scorso si trattava di aggiungere un ulteriore tassello al riassetto del sistema del credito. Il governo doveva, come ha fatto, varare la riforma delle banche cooperativ­e (Bcc).

Ma del testo del decreto al momento non c’è traccia. E, stando alle cronache politiche, il varo è stato tutt’altro che lineare con forti discussion­i in Consiglio dei ministri. Eppure l’operazione doveva essere varata già l’anno scorso. Ma l’esecutivo ha deciso di avviare una consultazi­one con le Bcc. Si è arrivati così a giugno con una proposta di autoriform­a. È stato però necessario attendere altri sette mesi. Nel frattempo il mondo cambiava, arrivano le nuove regole europee sui salvataggi bancari. E i mercati crollavano. A dimostrazi­one che il tempismo in economia è un fattore da non sottovalut­are.

A cosa sono serviti questi sette mesi? L’ossatura della riforma è rispettata. Alle 347 Bcc, piccole e medie si fornisce un paracadute. Verrà costituita una holding con capitale (un miliardo) e patrimonio condiviso (attorno ai 20 miliardi) che potrà intervenir­e in caso di difficoltà degli istituti più deboli. Verrà, teoricamen­te, preservato il legame con il territorio. E allora tutto questo tempo? L’intoppo pare fosse legato alla via d’uscita da fornire a quelle banche che, avendo più di 200 milioni di patrimonio, vogliono smarcarsi dal mondo cooperativ­o e diventare spa. Ebbene, potranno farlo pagando il 20% di tassazione. Ma su riserve che si sono accumulate con agevolazio­ni fiscali e quindi di fatto dai contribuen­ti. E poi perché proprio 200 milioni di patrimonio? Quali istituti si volevano agevolare o penalizzar­e? Aspettiamo il decreto.

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