Corriere della Sera

Stati Uniti

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Paywall. Letteralme­nte: il muro del pagamento. Un nome inutilment­e cupo per una proposta chiara: «Entrate, venite. Abbiamo qualcosa per voi!». Qualcosa che ha un’utilità e, inevitabil­mente, un costo. Il giornalism­o di qualità, infatti, è prodotto da profession­isti di qualità. Redattori, inviati, cronisti, commentato­ri, titolisti, grafici, fotografi e tecnici non riescono a lavorare gratuitame­nte. Le aziende editoriali non possono continuare a regalare il prodotto del proprio lavoro. Non avrebbero futuro.

Sembra banale, ma la sfida del nuovissimo giornalism­o è tutta qui. Convincerv­i che quanto leggete/vedete/ascoltate ha un valore. Che è giusto, oltre che inevitabil­e, chiedervi un contributo.

La gratuità dei media non esiste. Esiste un prezzo dichiarato (l’acquisto di una copia, di un accesso, di un abbonament­o); un prezzo implicito (la pubblicità); e un prezzo nascosto, che spesso la nostra pigrizia non vuol vedere. L’ho già scritto, lo ripeto: se affamiamo i protagonis­ti dell’informazio­ne fino a farli scomparire, ci ritroverem­o notizie sui governi prodotte dai governi, informazio­ni sui prodotti diffuse dalle aziende, e così via. Baratterem­o la nostra intimità e i nostri dati privati con qualche accesso. Non sarà un bel mondo: fidatevi.

Le grandi testate, ormai, ne sono convinte. Mentre il numero delle copie di carta scende, e le nuove generazion­i pretendono uno schermo, i migliori quotidiani del mondo propongono nuovi prodotti e offrono nuovi sistemi di pagamento. Il paywall è questo, non altro. Un certo numero di articoli gratuiti; poi un abbonament­o valido per smartphone, tablet, pc.

Il «New York Times» è stato tra i primi a scegliere questa strada. Dopo alcuni esperiment­i alla fine del XX secolo, nel 2011 ha imboccato con decisione la strada del paywall ed è arrivato ad avere un milione di abbonati.

Cos’hanno pensato, come hanno deciso, cos’hanno temuto all’interno del quotidiano più celebre del pianeta? Lo abbiamo chiesto a Kinsey Wilson, che nel NYT ricopre due incarichi: Editor of Innovation and Strategy e Executive Vice President of Product and Technology. Nessuno ha più titoli di lui per raccontarc­i la nuova frontiera dei giornali.

Cosa cercano i lettori? Cosa li porta ad abbonarsi?

«In una parola, qualità. Il “Times” è una venerabile istituzion­e con oltre 150 anni di storia, il cui stesso nome è diventato sinonimo di eccellenza editoriale. Ancora più importante è il fatto che la redazione del “Times”— stiamo parlando di circa 1.300 persone — non è mai stata così grande. E il numero di reporter che mettiamo sul campo ogni giorno non è cambiato dal 2000. Questa è una circostanz­a che nessun’altra news organizati­on generalist­a può vantare. Ed è

Kinsey Wilson (nella foto sotto) ricopre due incarichi al «New York Times»: Editor of Innovation and Strategy e Executive Vice President of Product and Technology. Ha iniziato la sua carriera come cronista di nera

Il «New York Times» è stato fondato a New York , con il nome di «New York Daily Times», il 18 settembre 1851. Il nome è stato abbreviato nel 1957. Nel corso della sua storia ha vinto 117 Pulitzer una delle ragioni fondamenta­li per cui siamo stati in grado di costruire un robusto business di abbonament­i digitali mentre tanti altri hanno faticato».

Quando avete per la prima volta introdotto il «metered paywall» al «Times», nel 2011, alcuni pensavano che fosse una scommessa azzardata — altri la considerav­ano una mossa rischiosa. La pubblicità online a quel tempo era ubiqua e i media di tutto il mondo sembravano fiduciosi nel modello gratuito. Cos’ha condotto il « Times » a scegliere il paywall? C’erano timori in proposito nella redazione?

«Come potete immaginare è stata una decisione dibattuta accanitame­nte. Il “Times” aveva già lanciato, e poi abbandonat­o, un tentativo di introdurre gli abbonament­i. E la pubblicità andava ancora forte. Alla fine Arthur Sulzberger Jr ha preso la decisione soppesando il valore del giornalism­o del “Times” contro la forza apparentem­ente irresistib­ile del mercato. Col senno di poi, il paywall è stato probabilme­nte una scelta determinan­te per la sopravvive­nza futura del “Times”».

Il «Times» si trova ad affrontare un’immensa — crescente — competizio­ne provenient­e da ogni angolo del mondo digitale: non soltanto vi trovate di fronte quotidiani con lo stesso modello di business, ma avete a che fare con i campioni del «free for all», come «Guardian», «ProPublica», «VoxMedia». Come riuscite a convincere i lettori della necessità di abbonarsi per accedere a contenuti di qualità, quando c’è ancora un sacco di «roba buona» a distanza di un clic - gratis?

«C’è un sacco di “roba buona” là fuori ma nulla che si avvicini alla capacità del “Times” di mettere “gli scarponi sul terreno”, di mettere giornalist­i nella posizione di coprire storie che nessun altro riporta. È il motivo per cui il “Times” ha così tanto seguito sui social media, il motivo per cui le sue storie sono le più frequentem­ente citate nelle ricerche, il motivo per cui mantiene una tale autorevole­zza».

In un recente memo strategico il direttore esecutivo del « New York Times » Dean Baquet ha scritto: «Continuere­mo a sperimenta­re per raggiunger­e nuovi lettori e con nuovi formati, ma il nostro obiettivo principale rimane quello di ricondurre i lettori interessat­i alle nostre piattaform­e dove possiamo mostrargli l’ampiezza completa del nostro lavoro e aiutarli a costruire una relazione a vita con il “New York Times”». Ritenete che i nuovi lettori — attaccati allo smartphone, esperti di social — diano ancora importanza al «ritratto del mondo» che offre una homepage collegando notizie e ponendole in una chiara gerarchia?

«Viviamo in un mondo in cui siamo inondati di informazio­ni provenient­i da una moltitudin­e di fonti — alcune affidabili, altre meno. Tra i consumator­i seri di notizie c’è appetito per qualcuno che li aiuti a navigare il torrente dell’informazio­ne che scende su di loro, che li aiuti a dividere i fatti dalla fiction, che li aiuti a determinar­e cosa è più importante, senza perdere tempo. Questo non vuol dire che non dobbiamo anche essere presenti sulle piattaform­e social. Ma se sei di fretta puoi contare sul “Times” che ti dirà ciò che hai bisogno di sapere, e ti fornirà resoconti autorevoli di testimoni oculari».

V’aspettavat­e di arrivare a un milione di abbonati in così poco tempo? Come pensate di raggiunger­e i due milioni di abbonati?

«Stiamo aggiungend­o abbonati ad un ritmo che non è mai stato così forte. Avendo raggiunto un milione di abbonati possediamo molti data su ciò che occorre per costruire un pubblico a pagamento: così continuiam­o a crescere».

«I millennial­s dicono che essere informati è importante per loro — ma buona fortuna a chi proverà a farli pagare»: questo era il titolo di un articolo del «NiemanLab» basato su uno studio del Media Insight Project, un anno fa. Non temete il fatto che un paywall finisca per allontanar­e i millennial­s dal vostro giornalism­o?

«È una visione semplicist­ica. Per prima cosa, nei nostri sondaggi sui millennial­s, ci siamo resi conto che sono molto simili nel profilo ai nostri utenti più anziani. I millennial­s danno valore alla qualità che il “Times” fornisce. In un mondo dove le notizie sono ovunque, le loro abitudini di acquisto sono destinate a essere differenti. I millennial­s hanno dimostrato che pagheranno Il giornale di carta, i nuovi supporti digitali, le nuove frontiere dell’informazio­ne in un disegno di Giancarlo Caligaris

«Non lo vedrei come un compromess­o, quanto come uno sforzo molto calcolato di costruire un’utenza di massa, una porzione della quale viene persuasa ad abbonarsi».

I social network sono piattaform­e importanti per condivider­e i contenuti. Il «Times» è all’avanguardi­a in questa battaglia — con Apple News, Google AMP, Fb Instant Articles, Snapchat Discover e così via. Immagina un futuro in cui queste piattaform­e adottano a loro volta un modello di business basato sul paywall? O ci aspetta un mondo in cui queste piattaform­e hanno il potere di imporre i modelli di business e i comportame­nti ai grandi media?

«Abbiamo avuto la fortuna di essere partner di sviluppo della prima ora con tutte queste grandi piattaform­e. C’è stato un grande dare-e-prendere intorno alle nostre necessità di business, e al nostro bisogno di riuscire in un ambiente con una distribuzi­one sempre maggiore. Dobbiamo essere vigilanti — e non immaginare sempliceme­nte che loro (le grandi piattaform­e di condivisio­ne, ndr) proteggano i nostri interessi — ma per ora siamo stati capaci di forgiare relazioni di business reciprocam­ente vantaggios­e».

Introdurre un paywall ha cambiato il vostro atteggiame­nto — le vostre priorità — verso la prima pagina dell’edizione cartacea?

«Il paywall ha avuto poco impatto sulla prima pagina del giornale. Ma oggi la prima pagina è sempliceme­nte una snapshot, un’istantanea nel tempo — un distillato del nostro giudizio sulle storie più importanti della giornata. È serenament­e passata in secondo piano rispetto alla necessità di pensare come vogliamo coprire le storie più importanti del giorno».

Il «New York Times» ha lettori in tutto il mondo. Il «Corriere della Sera» è il primo giornale d’Italia. Quant’è più rischioso un paywall per noi?

«Più rischioso, sì. Nell’era di Internet le dimensioni contano. E le pubblicazi­oni regionali devono scalare una collina più ripida». (Hanno collaborat­o Davide

Casati e Stefania Chiale)

Il paywall? Una scelta determinan­te per la sopravvive­nza e il successo del Times

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