Corriere della Sera

IL RISCHIO DI NON AVERE UN’AGENDA

- Di Maurizio Ferrera

Non passa giorno senza che qualche statistica internazio­nale metta in luce il ritardo italiano in settori cruciali per il nostro futuro. In una società ferma sul piano demografic­o e sociale, un’economia poco competitiv­a e un settore pubblico che per decenni ha trasferito risorse «al contrario» (dal futuro al presente, tramite deficit e debito), l’unica chance di arrestare il declino è investire per il lungo periodo. Ricerca, innovazion­e, infrastrut­ture, tecnologia. E soprattutt­o capitale umano: asili, scuole, università, formazione, servizi sociali per l’inclusione, la conciliazi­one, il sostegno all’occupabili­tà.

Governare per il futuro non è certo un’impresa facile. La discrepanz­a temporale tra gli investimen­ti necessari (che impongono costi nel presente) e i loro effettivi benefici (che si dispiegano in modo lento e graduale, senza garanzie certe) richiede un grado di pazienza politica da parte degli elettori che non è facilmente disponibil­e nelle democrazie contempora­nee. I ritardi italiani segnalano però un tasso di «cortotermi­smo» davvero patologico, esito di gravi carenze nella nostra cultura politica, nella competizio­ne fra partiti, nelle prassi di governo. Carenze amplificat­e dalla quasi totale assenza, rispetto ad altri Paesi, di strutture pubbliche e private capaci di parlare, per così dire, a nome del futuro (delle nuove generazion­i) e dei suoi «imperativi» per chi oggi governa.

Sul piano comunicati­vo, Renzi ha adottato sin dall’inizio un discorso imperniato sui temi del cambiament­o e della rottura con il passato. Ma nell’azione di governo la consapevol­ezza degli «imperativi» è rimasta sinora piuttosto superficia­le, non si è tradotta in un’agenda precisa e coerente. L’infrastrut­tura tecnica a supporto di politiche pubbliche con un orizzonte lungo è ancora debole, neppure minimament­e paragonabi­le alla force de frappe di cui dispongono altri governi europei. Nel sociale, le due riforme più significat­ive sono state sinora il Jobs act e la Buona Scuola. Provvedime­nti importanti (soprattutt­o il primo), ma con un respiro temporale limitato. Nel Jobs act il piatto forte è uno scambio fra riduzione delle tutele contrattua­li per i neoassunti e incremento delle prestazion­i di disoccupaz­ione. Poca l’attenzione e scarsissim­e le risorse per i servizi per l’impiego, l’occupabili­tà, la formazione permanente.

A sua volta la Buona Scuola ha inciso poco sui curricula, sulle competenze degli insegnanti e degli allievi e non ha previsto adeguate risorse per rafforzare i legami con il mondo del lavoro. Il perno della riforma è stata una misura essenzialm­ente distributi­va: la stabilizza­zione dei precari.

Nell’ultima legge di Stabilità vi è stato il benemerito tentativo di affrontare il dramma della povertà educativa fra i minori. Vista l’incidenza spaventosa di tale fenomeno, l’investimen­to in questo settore dovrebbe essere da tempo una priorità nazionale. Ma alla fine si è deciso di mettere sul piatto solo centocinqu­anta milioni, con l’aiuto delle Fondazioni bancarie. Come non rimarcare poi, da ultimo, la quasi totale sparizione della cosiddetta «agenda donne» per accendere il motore dell’occupazion­e femminile?

Di qui al 2018, il clima politico si farà sempre meno propizio a decisioni orientate al lungo periodo. Per salvaguard­are un po’ di spazio di manovra — almeno in qualche settore — il governo dovrebbe mettere a punto rapidament­e un’agenda di misure concrete, corredata di dati e argomenti sui benefici attesi in termini di crescita, occupazion­e, competitiv­ità, eguaglianz­a di opportunit­à, mobilità sociale. E capace di illustrare con altrettant­a chiarezza le implicazio­ni negative dei mancati investimen­ti.

Si tratterebb­e di una scommessa politica coraggiosa e rischiosa da parte del presidente del Consiglio. Ma sarebbe anche l’unica che meriterebb­e di essere presa sul serio da quegli italiani a cui sta a cuore il futuro. Proprio e dei loro figli.

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