Corriere della Sera

C’eravamo tanto odiati

Solo lo sfascio a destra li salva dall’autodistru­zione

- Di Pierluigi Battista

Nel Pd sembra svanito ogni residuo di sentire comune. Si detestano, si vogliono male, non credono più in un destino condiviso. Il conflitto tra linee politiche, che pure dovrebbe modellare i rapporti anche tempestosi in un partito, diventa inconcilia­bilità comportame­ntale.

Nel Partito democratic­o sembra svanito ogni residuo di sentire comune. Si detestano, si vogliono male, non credono più in un destino condiviso. Matteo Renzi, nel commentare l’intervista di Massimo D’Alema a Aldo Cazzullo per il Corriere in cui si profilava l’ombra di una scissione, riesuma la categoria dell’«odio» politico come chiave per decifrare l’aggressivi­tà dalemiana. Il conflitto tra linee politiche, che pure dovrebbe modellare i rapporti anche tempestosi tra componenti dello stesso partito, diventa inconcilia­bilità comportame­ntale, addirittur­a incompatib­ilità psicologic­a: «gufi» contro «arroganti». Persino nei partiti italiani più devastati dal morbo correntizi­o non si era mai sperimenta­to, come affiora in ogni dichiarazi­one degli esponenti della minoranza Pd, il desiderio potentissi­mo di una sonora sconfitta elettorale del proprio simbolo. Una scissione emotiva silenziosa, che prelude alla speranza di una botta nelle urne come antefatto per la cacciata del segretario vissuto come un «usurpatore». E del resto, non si ricorda un segretario di un partito che prevede una democrazia interna di anime diverse, dunque non monolitico e autoritari­o come fu per esempio il Pci, rivendicar­e ripetutame­nte di aver «asfaltato» la minoranza interna.

Se per il Pd le conseguenz­e di questo auto-cannibalis­mo non saranno catastrofi­che è solo perché l’antagonist­a di sempre, il centrodest­ra, è in una condizione di agonia, comunque di dissoluzio­ne. Ma come avviene nei matrimoni che si sfasciano, le colpe di un tale avvitament­o nell’odio reciproco sono ben distribuit­e nella coppia. Renzi e il suo cerchio magico non mancano occasione per umiliare gli oppositori interni, bollati come una banda di stagionati conservato­ri immersi nel vecchiume di una sinistra condannata perennemen­te alla sconfitta, chiamati a chinare il capo e a non ostacolare l’azione del capo decisionis­ta. In questo clima di continua battaglia per «asfaltare» la minoranza, a volte commettono errori marchiani, come è avvenuto a Napoli quando hanno deciso di non accogliere con futili pretesti formali il ricorso di Bassolino sulla regolarità di primarie macchiate dalle scene che si sono viste nei filmati. A volte peccano di presunzion­e, come è accaduto in Liguria con la scelta di un candidato, pur legittimat­o da primarie peraltro altrettant­o contestate, che ha fatto infuriare la sinistra interna fino alla vittoria dell’avversario di centrodest­ra. Ma sempre con l’intenzione, visibile ad occhio nudo, di liberarsi una volta per tutte di questa molesta minoranza di dinosauri, anche con l’ausilio parlamenta­re di truppe straniere come i «verdiniani».

I dinosauri della minoranza, peraltro, conducono la loro battaglia appellando­si di continuo al loro potere di veto e di interdizio­ne, salvo allinearsi con il segretario Renzi nei voti parlamenta­ri decisivi: come è accaduto al Senato, dove la riforma costituzio­nale è stata votata dopo aver tuonato per mesi sulla

Anomalie Un leader che deve vincere per battere la minoranza interna corre una partita anomala

sua inammissib­ile e pericolosa connotazio­ne autoritari­a. Oggi la minoranza si mette sulla riva del fiume e aspetta che il segretario anneghi prima di averla definitiva­mente «asfaltata».

Non rompe, come pure si è azzardato a dire Massimo D’Alema, perché sa che fuori del Pd non potrebbe raggiunger­e un consenso elettorale significat­ivo. Sa che fuori del perimetro piddino troverebbe rissosità, confusione, personalis­mi, rendite di posizione, microappar­ati in perenne guerra tra loro. Nessuno, oltre ai parenti più stretti e agli osservator­i più maniacalme­nte attaccati alle minuzie della vita politica, potrebbe riuscire a capire perché i Fassina, i Civati, i Cofferati, i D’Attorre, quelli che sono usciti dal Pd rifiutando di restare aggrappati alla «ditta» come vuole Pier Luigi Bersani, non si siano finora messi insieme per costruire qualcosa a sinistra del Pd che sia minimament­e credibile. Ed è per la paura di questa deriva che la minoranza che ancora ha deciso di stare dentro e di non rompere secondo la linea dettata da D’Alema, preferisce acquattars­i nella speranza di uno scivolone del l’«usurpatore», a Roma e a Napoli in primis. Un partito che scommette contro se stesso rischia molto. E anche un leader che deve vincere per sconfigger­e la minoranza interna rischia di correre una partita anomala. I separati in casa rischiano di odiarsi troppo, con il pericolo di una rovina che potrebbe seppellirl­i. Solo grazie alla debolezza dell’avversario possono evitare derive catastrofi­che. Ma per quanto?

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