Corriere della Sera

TRUMP E L’INTERNAZIO­NALE DELLA VOLGARITÀ DIFFUSA

Format Oggi in America, come successo in Italia, Francia e Russia, la politica si riduce a un grande set televisivo, dove vincono insulti, posizioni estreme, bassezze varie Al posto della democrazia trionfa la demagogia

- ( traduzione Daniela Maggioni) di Bernard-Henri Lévy © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Trump, in inglese, significa carta vincente. Nel gioco, è il jolly che si scopre alla fine. Quindi, al punto in cui siamo, mentre sembra che Donald Trump stia per ottenere l’investitur­a dal vecchio, grande partito di Abramo Lincoln e Ronald Reagan, bisognerà chiedersi in cosa consista esattament­e la carta vincente.

Pensiamo a una certa America revanscist­a, furiosa per gli anni della presidenza Obama. Pensiamo alla corrente suprematis­ta bianca, segregazio­nista, nativista, alla quale si riferiva il responsabi­le del Ku Klux Klan di cui Trump ha tanto esitato, la settimana scorsa, a rifiutare il chiassoso sostegno e che in questa occasione giocherebb­e il tutto per tutto.

Del resto, quando cerchiamo di prendere sul serio il poco che sappiamo del programma di Trump, immaginiam­o facilmente un Paese chiuso in se stesso, come murato e, in fin dei conti, inevitabil­mente impoverito.

Poiché dà la caccia a cinesi, musulmani, messicani, a coloro cioè che costituisc­ono il melting pot americano, che per il Paese più globalizza­to del pianeta è fonte, nella Silicon Valley e altrove, della sua prodigiosa e quasi miracolosa ricchezza. Ma come spesso accade in America, in questo fenomeno c’è qualcosa che va al di là dello scenario nazionale. E si è tentati di domandarsi se l’eventoTrum­p non sia anche l’annuncio (o se addirittur­a segni l’apogeo) di una vera nuova sequenza della politica mondiale.

Osservo la sua faccia da croupier di Las Vegas, il suo kitsch che ricorda un saltimbanc­o da circo, pieno di botulino, imparrucca­to, che si trascina da una television­e all’altra con la bocca aperta su una dentatura traballant­e e al tempo stesso solida, con una espression­e da cui non si capisce mai se ha bevuto o ha mangiato troppo, o se vi sta avvertendo che presto vi divorerà.

Ascolto le sue imprecazio­ni, il suo parlare crudo, il suo odio patetico verso le donne che, secondo l’umore, chiama cagne, scrofe, o col nome di animali poco attraenti. Ascolto le sue barzellett­e oscene in cui il linguaggio castigato dei politici è considerat­o inferiore al parlare franco della plebe, un parlare a «grado zero» che sarebbe, secondo lui, il linguaggio degli organi che si trovano solo nei pantaloni: l’Isis? Non gli faremo la guerra, ma lo prenderemo «a calci nel sedere»; l’osservazio­ne del suo rivale Marco Rubio sulle sue «piccole mani»? Il resto, state tranquilli, non è «così piccolo» come credete...

E la religione dei soldi, e del disprezzo ad essi connesso, è diventata, per questo miliardari­o più volte fallito, forse legato alla mafia, imbroglion­e, il segreto del credo americano.

E l’impression­e di un magro pasto, di un junk food fatto di grasso e di pensieri pesanti, che sembra trionfare sui sapori cosmopolit­i, leggeri, che emanavano dagli usi, dalle tradizioni, dalla vera grande «pastorale americana».

E il momento, nella storia delle «piccole mani», in cui un orecchio che sia minimament­e attento a questa pastorale si sorprende ad ascoltare — ma per trovarlo lordato, sporcato, defigurato dal pietoso livello dello scambio di battute — il famoso verso di Edward Cummings, l’Apollinair­e americano, citato nella più bella scena del film di Woody Allen Hannah e le sue sorelle, in cui si dice che «nessuno, nemmeno la pioggia, ha mani così piccole»...

Di fronte a questo salto in avanti nella scurrilità e nella bassezza, si pensa a Berlusconi. A Putin e ai Le Pen. Si pensa a una internazio­nale della volgarità e dei lustrini dove la scena politica sembra ridursi a un immenso set televisivo; l’arte del dibattito alla mediocrità; i sogni degli uomini a illusioni

Somiglianz­e Il magnate repubblica­no ha tratti in comune con Silvio Berlusconi, Vladimir Putin e i Le Pen

ampollose e scintillan­ti; l’economia alle contorsion­i di zii Paperone grottescam­ente fisici, verbalment­e deficienti e carichi d’odio nei confronti di tutto ciò che pensa; e il gusto della riuscita e dell’impresa sembra ridursi ai piccoli imbrogli che si insegnavan­o in quell’antenata della Star Academy che fu la defunta Trump University.

Ho proprio detto una internazio­nale. Una globalizza­zione del volgare. Il volto estremo di una umanità di cartoni animati che sceglie il basso, l’organico, il pre-linguistic­o, per assicu- rarsi un trionfo universale. Una universali­tà da quattro soldi dove si getta nel dimenticat­oio di una Storia ormai sorpassata la fragilità degli esiliati e dei viaggiator­i che, dai due lati dell’Atlantico, hanno sempre contribuit­o alla vera aristocraz­ia umana: quella che è stata data, all’America per esempio, dal grande popolo dei latino-americani (Latinos), degli ebrei dell’Est, degli emigrati italiani, dei cinesi e degli inglesi che ancora sognano le canoe oxfordiane sugli specchi d’acqua di Boston.

Berlusconi, dunque, ha inventato questo mondo. Putin ha preteso di virilizzar­lo. Altri demagoghi europei lo stanno associando al peggior razzismo. Ebbene, Trump ne ha fatto la propria torre, una delle più brutte di Manhattan, con la sua architettu­ra superata e pretenzios­a, l’atrio gigantesco, una cascata di venticinqu­e metri per far colpo sugli animi semplici: una sorta di Babele in acciaio riciclato da qualche don Corleone dei bassifondi, dove tutte le lingue del mondo tendono a fondersi in una sola.

Ma attenzione! Questa lingua non è più quella dell’America che sogniamo eterna e che talvolta ha restituito la vita a culture stremate, ma è la lingua di una America dai grandi «attributi sessuali», che si sarebbe rassegnata a fare a meno dei libri e della bellezza del mondo, che confondere­bbe Michelange­lo con un sarto italiano e che avrebbe dimenticat­o che nessuno, nemmeno la pioggia, ha mani così piccole.

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