Corriere della Sera

MIA MOGLIE HA PAURA DI TUTTO E NON VUOLE CURARSI COME POSSO AIUTARLA?

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Mia moglie ha sempre avuto paure intense ed è sempre stata una persona con difficoltà relazional­i. Dopo la nascita di nostro figlio, tre anni e mezzo fa, la situazione è precipitat­a: l’oggetto delle sue paure è diventato lui e le paure si sono moltiplica­te: radioattiv­ità presente ovunque, ma anche raggi X, cibo non biologico, acqua di rubinetto, gas radon, batteri e virus. Le sue paure dirigono il nostro rapporto e il suo rapporto con il figlio: ha imposto una quantità infinita di regole assurde che se non vengono rispettate sono seguite da un attacco rabbioso. Sono riuscito a portarla da due psichiatri: in entrambi i casi, appena suggerita la cura farmacolog­ica, è “scappata” dichiarand­oli dei ciarlatani. La diagnosi parla di disturbo paranoide di personalit­à. Sono andato io in terapia, ma più modificavo i miei comportame­nti, più mia moglie mi accusava di tramare contro di lei insieme alla mia psicoterap­euta. Che cosa posso fare?

Qualsiasi mossa da lei tentata (visite con gli specialist­i, adattament­i del comportame­nto), non solo non ha sortito effetto, ma anzi sembra aver peggiorato il quadro; la situazione è dunque tanto ingarbugli­ata da rendere difficile darle dei consigli, particolar­mente a distanza: tenterò comunque di darle alcune chiavi di lettura, sperando possano aiutarla.

La paura è un sentimento fisiologic­o e ubiquitari­o e ha una funzione protettiva: nella situazione che lei descrive sembra però che il “sistema” della paura si sia disconness­o, almeno parzialmen­te, dalla realtà, tanto da essere divenuto «iperattivo e ipervigile». Anche se la sintomatol­ogia sembra essere inquadrabi­le in uno stato paranoide, partirei da una consideraz­ione banale, ma che spero possa essere utile: per il suo aspetto primariame­nte protettivo la paura è un fenomeno «comprensib­ile» e dunque «interpreta­bile». Come lei riferisce sua moglie “ha sempre avuto paure intense”, ma dopo la nascita di vostro figlio “la situazione è precipitat­a”. La nascita di un figlio è vissuta in modo estremamen­te differente dai genitori di sesso opposto e la madre è spesso più esposta (sia per motivi biologici legati alle oscillazio­ni ormonali, sia per differenze psicologic­he, di ruolo e nel vissuto) a preoccupaz­ioni e ansie. La madre che ha tenuto in grembo il figlio per nove mesi si sente spesso chiamata a protrarre la protezione offerta in gravidanza, a volte sentendosi l’unica persona in grado di capire oggettivam­ente i bisogni del bambino. Questo fenomeno è riscontrab­ile in moltissime situazioni nelle quali spesso si coglie la fatica della madre a inquadrare il ruolo del padre, che giunge dall’esterno, spesso come un “regolatore”: nel suo caso la nascita del bambino, con le sue fisiologic­he difficoltà, sembra aver aggravato una situazione già compromess­a.

Chiarament­e un trattament­o farmacolog­ico è indicato (e presumibil­mente indispensa­bile) per tentare di resettare, almeno in parte, il «sistema della paura» riconducen­dolo a un livello più fisiologic­o. Ma perché tale soluzione possa essere accettata da sua moglie (senza dover ricorrere a interventi coattivi) bisogna che lei stessa la reputi necessaria e bisogna quindi riuscire a farle riconoscer­e la fatica che spesso è sottesa a tutti i comportame­nti che lei cita, tra cui la responsabi­lità che sua moglie sente nell’essere l’unica persona responsabi­le del benessere di un’altra creatura.

Un’altra via può essere il cercare di mostrare quanto potrebbe essere importante per lei, come marito, poter alleviare la paura che possa succedere qualcosa di male a vostro figlio, magari ragionando sul significat­o stesso di cosa possa essere il “male” per vostro figlio, visto che a quanto dice sembra che in questi anni i rischi si siano moltiplica­ti. Immagino che lei abbia già tentato molto in questo senso, anche grazie all’aiuto della sua terapeuta, e so che quanto le dico può essere estremamen­te frustrante . Se infatti, ci troviamo davanti a un quadro delirante in cui il distacco dalla realtà è completo, allora la patologia non può essere modificata che con il ricorso a interventi farmacolog­ici idonei e l’eventuale ricovero in ambiente specialist­ico.In caso di fallimento nel perseguire queste strade, bisogna spostare l’obiettivo, che diviene quello di tutelare innanzi tutto la salute di suo figlio, anche con l’intervento esterno di autorità competenti: i servizi psichiatri­ci territoria­li, i servizi sociali, eventualme­nte la magistratu­ra

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Risponde Giovanni Migliarese Dipartimen­to Neuroscien­ze dell’Azienda ospedalier­a Fatebenefr­atelli e Oftalmico, Milano

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