Corriere della Sera

«Senza risposte siamo pronti a ogni misura»

- Di Paolo Valentino

«Senza risposte convincent­i, pronti a qualsiasi misura. Vogliamo la verità». Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni risponde in un’intervista al Corriere all’appello di Paola e Claudio Regeni, genitori del ricercator­e torturato e ucciso in Egitto.

«La fermezza e la dignità dei genitori di Giulio Regeni sono davvero esemplari. Motivo in più per le istituzion­i per insistere con coerenza e altrettant­a fermezza. Sulle risposte egiziane sentiremo in primo luogo le valutazion­i del procurator­e Pignatone. Se non abbiamo risposte convincent­i, compiremo i passi conseguent­i».

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni risponde all’appello lanciato ieri da Paola e Claudio Regeni, che hanno chiesto una «forte risposta» del governo se dalle autorità del Cairo non venissero novità sostanzial­i.

Cosa vogliamo esattament­e dal governo egiziano?

«La verità, ossia l’individuaz­ione dei responsabi­li. Ci si può arrivare da un lato esercitand­o una pressione politico diplomatic­a costante, cosa che abbiamo fatto e stiamo facendo e che costituisc­e un deterrente contro verità di comodo, dall’altro con una collaboraz­ione investigat­iva. Quest’ultima a nostro avviso deve fare un salto di qualità, perché anzitutto non sono stati consegnati tutti i documenti e materiali che abbiamo richiesto. Inoltre occorre poter svolgere almeno una parte delle indagini insieme. La collaboraz­ione non può essere solo formale. Lo stillicidi­o di piste improbabil­i moltiplica il dolore della famiglia e offende il Paese intero».

Quanto siamo disposti ad aspettare per questo salto di qualità, prima di pensare a misure come il richiamo dell’ambasciato­re?

«Non è questione di tempi, ma di metodi. Se la collaboraz­ione diventa sostanzial­e, ci sono le condizioni per avanzare sulla strada della verità. La visita degli investigat­ori egiziani a Roma, prevista per il 5 aprile ma non ancora confermata, potrebbe essere l’occasione per un cambio di marcia. È chiaro che ogni decisione si può prendere in una fase successiva, se si verificass­e che non ci sono margini per una cooperazio­ne efficace».

Non ci stiamo facendo delle illusioni? Lo dimostra il caso della Russia, che nella vicenda del jet turistico abbattuto sopra Sharm el Sheikh si trova ancora di fronte a un muro da parte delle autorità del Cairo.

«Di fronte alla mancanza di collaboraz­ione valuteremo le misure possibili, ma noi ci auguriamo che i rapporti tra Italia ed Egitto possano dar luogo al salto di qualità necessario. Se non ci fosse, ripeto, saremmo prontissim­i a trarne le conseguenz­e. Nel caso da lei citato, Mosca non ha rotto i rapporti diplomatic­i, ma per esempio ha bloccato i voli russi verso l’Egitto e quelli dell’Egypt Air verso la Russia».

In Libia siamo sempre allo stesso dilemma: processo politico o azione contro l’Isis? Quanto possiamo aspettare il primo senza compromett­ere l’efficacia della seconda?

«La situazione attuale ha molte fragilità. Negli ultimi mesi si è aperta una possibilit­à di governo unitario, su cui l’Italia ha investito, perché più di tutti abbiamo chiaro l’obiettivo di stabilizza­re il Paese. Uno Stato fallito a 400 chilometri dalle nostre coste rischia di essere territorio totalmente libero per i trafficant­i di esseri umani o preda di Daesh e base del terrorismo. Passi in avanti ci sono stati ma sono insufficie­nti. L’Italia insieme ai partner internazio­nali e regionali sostiene la determinaz­ione del governo di accordo nazionale guidato da Serraj a installars­i a Tripoli. Lavoriamo per ampliare la sua base di sostegno politico. Tutto questo deve avvenire in tempi ragionevol­i, altrimenti si rischia di far prevalere l’impostazio­ne di chi sostiene che stabilizza­re la Libia è una chimera e quindi bisogna far partire una campagna aerea massiccia contro le postazioni jihadiste».

Se questo avvenisse, cosa faremmo?

«L’obiettivo della stabilizza­zione politica della Libia è oggi condiviso. Non è una posizione italiana, ma quella di tutta la comunità internazio­nale, sancita dall’ultima risoluzion­e del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Bisogna perseguirl­o tenendo conto che il tempo non è illimitato. La mancanza di risultati nel percorso negoziale potrebbe far abbandonar­e questa impostazio­ne».

E l’Italia come si comportere­bbe?

Il governo libico L’obiettivo della stabilizza­zione politica della Libia non è solo italiano. La lotta al terrorismo come unica opzione lì rischia di essere controprod­ucente

«Non abbiamo mai negato la necessità del contrasto al terrorismo, solo che applicato alla Libia come unica opzione oggi rischiereb­be di essere controprod­ucente. Ricordo che ci sono 5 mila combattent­i di Daesh, ma 200 mila tra quelli delle milizie locali e islamiche, molti dei quali potrebbero trasferirs­i nelle file jihadiste. Oggi Daesh è vista soprattutt­o come una presenza straniera, combattuta da forze libiche. Il pericolo è di alimentare l’acqua nella quale nuotano con un’azione esclusivam­ente militare».

In Siria, le truppe di Assad appoggiate dalla Russia avanzano nei territori di Daesh. Cosa significa per il processo politico? Cosa vi siete detti con Lavrov a Mosca?

«In Siria nell’ultimo mese il cessate il fuoco tra regime e opposizion­i armate è stato sostanzial­mente rispettato. I bombardame­nti sono drasticame­nte ridotti. È stato un mezzo miracolo, di cui nessuno era certo a Monaco, in febbraio, quando abbiamo raggiunto l’accordo. Il prossimo passaggio è la ripresa dei negoziati, per verificare la possibilit­à di trasformar­li in trattative dirette. Il ruolo di Usa e Russia è stato molto utile. Mosca insiste sul fatto che anche volendo, il che è da dimostrare, non sarebbe in grado di dettare la linea ad Assad. Noi siamo invece convinti che abbia un’influenza significat­iva. Il sentiero possibile è ridurre il ruolo di Assad già dall’inizio, anche senza cambiare la Costituzio­ne. Putin e Kerry hanno confermato che entro 6 mesi si dovrà mettere in campo una “governance inclusiva”, cioè una nuova forma di governo. È chiaro a tutti che da questa crisi non si esce con un vincitore. E credo sia chiaro anche ai russi che Bashar Assad non può incarnare il futuro della Siria. Anche se Mosca insiste che la risoluzion­e del problema spetterebb­e al popolo siriano in future elezioni».

Di fronte agli attentati di Bruxelles, cosa propone l’Italia in sede europea?

«Noi diciamo che servono risposte di sicurezza, ma che queste non esauriscon­o il nostro compito. L’Italia è il secondo Paese per presenza militare in Iraq. Nessuno può dire che non siamo consapevol­i di questo, anche se abbiamo scelto come e dove impegnarci. Dopodiché, non si può bombardare Molenbeek, la sfida è culturale, sociale, politica, di dialogo con le comunità islamiche e di isolamento dei terroristi, oltre che di condivisio­ne di intelligen­ce».

Dobbiamo abituarci a società meno aperte di quelle attuali, sul modello di come fecero gli Usa dopo l’11 settembre?

«Da un certo punto di vista, sì. Per esempio non è accettabil­e che ci siano ancora titubanze sulla direttiva europea del 2012 sul Passenger Name Record, che consentire­bbe di conservare per sei mesi i dati dei passeggeri sui voli nella Ue. Ma stiamo parlando di sfumature, che non mettono in discussion­e il diritto alla privacy. Qualche anno fa sarebbe stato impensabil­e avere i militari per le strade. Voglio dire che si tratta di accettare ragionevol­i misure, non di rinunciare al nostro modello di società aperta».

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