Corriere della Sera

Il passaporto nel covo che incastra gli apparati

- di Fiorenza Sarzanini fsarzanini@corriere.it

Èla prova regina, l’elemento chiave per dimostrare il depistaggi­o. Il ritrovamen­to del passaporto di Giulio Regeni nel covo della banda di finti poliziotti accusati di averlo torturato e ucciso dimostra la messinscen­a degli apparati di sicurezza egiziani. Appare ormai evidente — per ammissione dello stesso ministro dell’Interno del Cairo Magdi Abdel-Ghaffar, quando ha assicurato che «l’indagine non è affatto chiusa» — che il gruppo criminale è estraneo alla cattura e all’assassinio del ricercator­e italiano. E dunque il fatto che i banditi fossero in possesso del suo documento e del tesserino universita­rio viene ritenuto fondamenta­le per i magistrati italiani, perché può consentire di far scoprire chi glielo ha consegnato. È quanto il team investigat­ivo italiano composto da poliziotti dello Sco e carabinier­i del Ros chiederann­o dunque all’incontro del 5 aprile con i colleghi egiziani. La delega del procurator­e Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco è esplicita: ottenere l’elenco dei «contatti» dei cinque uomini — peraltro uccisi nel corso di una sparatoria — potendo esaminare i loro tabulati telefonici, gli spostament­i nel giorno del rapimento del giovane e in quello del ritrovamen­to del corpo, ogni altro elemento utile a capire con chi abbiano avuto rapporti prima di essere eliminati ed evidenteme­nte poi utilizzati come capro espiatorio.

I pubblici ministeri italiani sono adesso in prima linea nella ricerca della verità, ma non si può credere di delegare esclusivam­ente a loro questo compito. Perché se davvero si vuole sapere chi sono gli assassini di Giulio Regeni, all’iniziativa giudiziari­a si deve affiancare un’azione politica forte e decisa. Un’iniziativa del governo che faccia valere le proprie ragioni proprio chiedendo conto del rinvenimen­to di quegli oggetti personali nel covo della banda. L’ennesima presa in giro.

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