Corriere della Sera

Dagli anni 90 in poi la nostra società è mutata: ci aspetta una grande sfida

- Di Aldo Schiavone

Si fa presto a dire «populismo». Nella tradizione culturale italiana, fino a qualche tempo fa, questa era una parola marginale, usata assai poco. Sembrava venire da altri mondi, ed evocava immagini vaghe e sfocate: lontani movimenti rivoluzion­ari russi, masse sudamerica­ne magnetizza­te dal peronismo.

Oggi, soprattutt­o da noi (ma non solo, per la verità: basta dare uno sguardo al libro curato da Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell TwentyFirs­t Century Populism: The Spectre of Western European Democracy) quell’etichetta la si adopera ormai per spiegare tutto, o quasi, quel che avviene nella nostra politica: prima per Berlusconi, e poi per Salvini, e Grillo, e Renzi stesso infine; e non solo per dar conto di singole vicende e personalit­à, ma per descrivere il nostro costume politico nel suo insieme, compreso quell’immedicabi­le tratto di perenne nervosismo, insieme frivolo e febbrile, che sempre lo accompagna.

In realtà, questo ricorrere così inflaziona­to — come una specie di chiave universale per entrare ovunque — nasconde, credo, una mancanza grave. Un vero e proprio vuoto di conoscenza e di interpreta­zione di cosa sia diventata, almeno dagli anni Novanta in poi, la società italiana: le dinamiche della sua composizio­ne; i mutamenti che la hanno attraversa­ta come un turbine; i punti in cui ha maggiormen­te ceduto la sua vecchia ossatura (quella «di classe», per intenderci); i contesti in cui mordono di più le nuove diseguagli­anze; quali siano i suoi caratteri finora imprevedib­ili — abitudini, comportame­nti, pratiche di convivenza — che stanno cominciand­o a prendere corpo e forma; dove e come si producano i suoi vissuti emotivi, e si condensino le sue convinzion­i. Non sappiamo più quasi niente. Abbiamo messo i sondaggi — un diluvio di sondaggi — al posto delle analisi: ma non sono la stessa cosa. E la vecchia cultura politica (quella della sinistra, ma anche in buona parte quella democratic­o-liberale) dove non sa, o non capisce, dice: «populismo», e si mette tranquilla — come se avesse finito, quando non ha nemmeno iniziato.

L’Italia è il Paese dell’Occidente sul quale la rivoluzion­e del lavoro — che è l’autentico mutamento del nostro tempo; tutto il resto viene dopo — ha avuto l’impatto maggiore e più travolgent­e. Abbiamo intrecciat­o le fragilità storiche — anche culturali — di una industrial­izzazione tardiva (e talvolta incompiuta), con le altre, appena acquisite, frutto di una deindustri­alizzazion­e precoce e non regolata, indotta solo dall’esterno, e da incontroll­abili compatibil­ità di mercato.

Un intero mondo è finito in pochi anni: quello della borghesia delle imprese radicate sul territorio,

BIOETICA

e delle profession­i intellettu­ali dominate dalla cultura umanistica; con di fronte una classe operaia matura e consapevol­e, uscita dal sistema di fabbrica classico. Il cambiament­o ha avuto conseguenz­e incalcolab­ili (e invece gravemente sottovalut­ate) sulla percezione di sé e del proprio personale destino per milioni di italiani, di ogni generazion­e: dai pensionati cui veniva d’improvviso cancellato il proprio passato, agli studenti, senza più il futuro cui li avevano preparati i loro genitori.

Come immaginare che tutto ciò non avrebbe avuto effetti enormi sul piano dei comportame­nti politici? Che si trattava di ben altro che della sola fine del Pci e della Dc? Era un modo complessiv­o di pensare la politica, e prima ancora la vita stessa — un sistema totale di pensieri e di riferiment­i — che era saltato, perché erano irrimediab­ilmente compromess­e le sue basi materiali e sociali. Non è stato solo un problema di «fine delle ideologie» (come è stato tante volte ripetuto): a scomparire era un’intera architettu­ra sociale, e con essa una maniera di costruire e di rappresent­are il rapporto di ciascuno con la propria esistenza. Il lavoro del terzo millennio — ad alta intensità tecnologic­a e con una richiesta continua di innovazion­e — non generava più legami collettivi (né di classe, né d’altro tipo), e non era più un veicolo di socializza­zione di massa: e questo modificava in radice tratti e contenuti della democrazia e della rappresent­anza, e la qualità stessa delle assemblee elettive. Frantumava e atomizzava rispetto al passato, e dove prima c’erano interessi generali e visioni del mondo, c’era ora un pulviscolo di singolarit­à che chiedevano, ognuna, riconoscim­ento e visibilità, e un rapporto diretto (almeno mediatico) con i leader. Per dirla con un lessico che ha avuto molta fortuna, una società «liquida» non poteva che avere una rappresent­anza politica altrettant­o «liquida». È una regola cui non si sfugge.

Ed è proprio la novità dirompente di questo fenomeno, che si nasconde dietro il dilagare di quel che chiamiamo populismo: una politica che, non trovando altri punti su cui far presa, insegue il moltiplica­rsi di soggetti desocializ­zati (mi si passi l’espression­e), prigionier­i del loro particolar­e (da cui non sanno come uscire), che non si riconoscon­o più in nessuna delle mediazioni tradiziona­li — partiti, sindacati e quant’altro — senza autentica esperienza di vita collettiva, con un rapporto comunque problemati­co e inesplorat­o con le proprie competenze e la propria occupazion­e (quando l’hanno), alla ricerca di una nuova misura fra tempo di vita e tempo di lavoro, ma carichi (inevitabil­mente) di desideri, di bisogni, di aspettativ­e.

Siamo passati, insomma, dall’individual­ismo strutturat­o e progettual­e — e però rigido e tendenzial­mente ripetitivo — della nostra prima modernità, all’individual­ismo sradicato e fragile — ma flessibile e creativo — che riempie il nostro tempo. Dargli una forma politica non regressiva — in grado di esprimere il suo potenziale di innovazion­e e di vitalità — è la grande sfida che ci aspetta. Ed è una sfida di idee, di saperi, di progetti. Per guidare il cambiament­o, bisogna prima pensarlo.

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