La città s’è svegliata: alla fine ha vinto lei
Chissà cosa avrebbe pensato la cara e dolce (ma poi forse nemmeno tanto) Peggy davanti a quei 10mila visitatori che in soli 10 giorni si sono catapultati a Palazzo Strozzi per ammirare i Kandinsky, i Duchamp, i Fontana suoi e di suo zio Salomon? Forse le sarebbero venute in mente due espressioni molto italiane, «vendetta-tremenda-vendetta» oppure quella «legge del contrappasso» di dantesca memoria. Perché quando Peggy sbarcò nel febbraio del 1949 sotto il Cupolone di Brunelleschi portandosi appresso la sua collezione fece un grave errore: decise di metterla in mostra proprio a Palazzo Strozzi, invece che tenersela blindata. E ne pagò le conseguenze: i fiorentini reagirono al loro peggio, qualche pseudo-intellettuale le chiese «di portare immediatamente via quegli orrori dalla culla del Rinascimento»; qualcun altro (il pittore Piero Annigoni) usò invece una espressione lapidaria: «baraccone». Alla fine però Peggy ha vinto: questa mostra non è che la logica (e felice) conclusione di una voglia di una modernità in perfetto stile Guggenheim. Quella voglia di modernità che in città già covava comunque sotto la cenere e che aveva (ad esempio) prodotto Art/tapes/22 ( fondato da Maria Gloria Bicocchi con il marito Giancarlo, fra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, uno dei quattro centri italiani di produzione della videoarte. Se oggi la modernità-contemporaneità non è più tabù sulle rive dell’Arno lo si deve in fondo anche a quella lontana vacanza di Peggy. Dunque merito (anche) suo se al «Marino Marini», al Museo del Novecento, alla Strozzina (dove tra poco tocca a Lui Xiaodong), alla Galleria «Il Ponte» (dove va in scena Bernard Joubert) l’altra faccia dell’arte, quella meno classica e più imprevedibile, non ha più paura di mettersi in mostra.