L’ideale del «parroco scalzo» e la sfida alle gerarchie ecclesiali
Quanto ai beni materiali il prete non deve cercare nulla che vada «oltre il reale bisogno»: è la consegna data ieri dal Papa ai vescovi italiani. Tuttavia il richiamo più radicale non è stato quello alla povertà personale ma un altro, più ampio, alla povertà istituzionale: cioè alla povertà della Chiesa nella «gestione delle strutture e dei beni economici».
«In una visione evangelica — ha detto Francesco alla Cei — evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito: mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio». Solo ciò che serve, buttate il resto: la regola data dal Papa è stretta. Più stretta della reale situazione del nostro clero, che in maggioranza è povero ma che ha pure zone di benessere.
Descrivendo il modello del parroco Francesco ha detto che è «scalzo» (ma nel senso di Mosè che si toglie i calzari perché il luogo che calpesta è sacro) e «non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici»; «per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno » . Ha uno « stile di vita semplice ed essenziale» che «lo avvicina agli umili»; «cammina con il cuore e il passo dei poveri ed è reso ricco dalla loro frequentazione».
Il Papa ha riproposto l’ideale della vita austera che sempre predica agli uomini e alle donne di Chiesa, quello stesso ideale che gli viene dalla formazione gesuitica. Il gesuita anche quando è un professore universitario si accontenta di una stanza, un letto, una scrivania: è la fedeltà a quell’ideale che l’ha convinto a restare al Santa Marta e che l’induce a richiamare con continuità ai consacrati non solo l’impegno a essere poveri ma anche a «crescere» nella povertà.
«Pregate per me, perché il Signore mi faccia ogni giorno più povero» ha detto sabato 7 maggio ai «Medici con l’Africa». Tanta è la sua insistenza su questo tema, che in più occasioni ha sentito il bisogno di difendersi dall’accusa di pauperismo, che rigetta con decisione: «Questo di andare verso i poveri non significa che dobbiamo diventare pauperisti, una sorta di barboni spirituali » aveva detto il 17 giugno 2013.
Sulla necessità di non interpretare i richiami alla povertà come elogio o scelta di una vita misera è tornato cinque giorni addietro dialogando con 900 suore: «La vita religiosa è un cammino di povertà ma non è un suicidio » . In quella stessa conversazione ha detto che «la miseria può corrompere la vocazione religiosa quanto la ricchezza».
Un po’ diverso ovviamente è l’ideale di sobrietà che il Papa dei poveri propone a chi non ha fatto il voto di povertà o non è responsabile di uno stile di vita esemplare com’è il caso del prete. Ma a tutti richiama l’impegno a una testimonianza coerente: «Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone, questo non si può fare».
In sostanza il cristiano — per Francesco — ha un dovere di sobrietà e di non dare scandalo con l’uso dei beni. Ogni cristiano, anche il laico che vive nella famiglia e nella professione, ha quel vincolo. Il consacrato è poi tenuto a «testimoniare la povertà»: e qui non è più solo la sobrietà che viene richiesta, ma l’austerità.