Corriere della Sera

LA DOPPIA SFIDA AFRICANA

- Di Franco Venturini

Se l’Italia troverà le risorse e la volontà politica che servono per garantirle un seguito operativo, la conferenza italo-africana in corso a Roma, invece di essere una ennesima parata di buone intenzioni, diventerà la più importante iniziativa di politica estera intrapresa da quando Matteo Renzi è a Palazzo Chigi. Da decenni l’Africa viene vista come una occasione economica da non perdere. Le enormi ricchezze del suo sottosuolo, la progressiv­a nascita di un grande mercato, gli alti tassi di crescita appena ridimensio­nati dal calo dei prezzi delle materie prime, hanno fatto da sfondo alle ambizioni rivali di francesi, americani, britannici, tutti impegnati a difendere zone d’influenza ex coloniali o neocolonia­li poi ridotte al lumicino dall’arrembaggi­o cinese. Dell’Africa si parlava soltanto per questo, per le opportunit­à economiche che offriva e per le crisi umanitarie, naturali o derivanti da guerre feroci, che proponeva alla coscienza del mondo sviluppato. Non è più così, o non è più soltanto così. In Africa, oggi, si giocano la nostra stabilità e la nostra sicurezza, come dire i più significat­ivi dei nostri interessi nazionali. Al punto che l’europeismo critico e l’attenzione all’Africa diventano per l’Italia due facce della stessa medaglia, due esigenze complement­ari che non è più possibile affrontare separatame­nte o con diversa serietà di impegno. Ovunque in Europa è ormai evidente il collegamen­to tra ondata migratoria e brusco spostament­o degli equilibri politici.

Il prossimo test è atteso in Austria, domenica prossima. Ma anche altrove l’avanzata dei populismi antisistem­a e anti-migranti unisce nella protesta la perdurante crisi economica e l’arrivo dei diversi, avvicinand­osi al potere, dove non lo ha già conquistat­o, attraverso l’ineccepibi­le metodo democratic­o delle elezioni. Le scelte fatte nelle urne vanno rispettate, s’intende. E tuttavia un fenomeno collettivo di questo genere destabiliz­za e distrugge, come ha ben capito Angela Merkel quando ha imposto alla Ue, pur di guadagnare tempo, un indigesto patto con la Turchia di Erdogan. Ebbene, da dove vengono i migranti che giungono in Italia e che in Italia rimarranno se continuera­nno a non essere rispettati gli accordi di redistribu­zione? Dall’Eritrea, dalla Nigeria, dalla Somalia, dal Sudan, dall’Egitto, mentre assai più limitato è a tutt’oggi, e fino a quando non sarà stata aperta una ipotetica rotta attraverso l’Adriatico, l’afflusso dalla Siria. La risposta è dunque chiara: i «nostri» migranti vengono dall’Africa, e in Africa richiedono efficaci politiche di contenimen­to (cosa ben diversa dal respingime­nto).

Il governo ci sta provando, conscio che non siamo di fronte a fenomeni di breve durata. Il ministro Gentiloni evoca riforme struttural­i da realizzare nei Paesi di origine, almeno in quelli dove le guerre e le dittature lasciano ancora qualche spazio allo sviluppo: la modernizza­zione dell’agricoltur­a, nuove infrastrut­ture, interventi per gestire l’urbanizzaz­ione, misure per favorire i commerci con i Paesi vicini. Si vuole consentire agli africani di restare a casa loro con qualche speranza, con qualche possibilit­à di lavoro. Ma la Cooperazio­ne italiana non ha più i mezzi, se mai li ha avuti, per sostenere simili aiuti. Serve un impegno europeo, e la proposta del Migration Compact, volta a trovare le risorse per una partnershi­p con l’Africa in cambio di un più efficace controllo delle frontiere e di una maggiore cooperazio­ne in materia di rimpatri, è parsa a molti una iniziativa meritoria. Non alla Merkel, quando ha sentito parlare di eurobond per finanziarl­a. Ma altre vie possono e devono essere esplorate. Prima che le destabiliz­zazioni democratic­he avanzino ancora.

L’altro terreno di prova è la sicurezza. Quali che ne siano i motivi ispiratori (più attenta osservazio­ne della realtà in Libia, oppure desiderio di non turbare le prove elettorali in arrivo da noi?), l’Italia ha ragionevol­mente preso la decisione di mettere in frigorifer­o l’invio in Libia di un robusto contingent­e militare. I rischi sarebbero stati altissimi, come da noi più volte segnalato. Ma questo progresso non esclude altre confusioni od omissioni. Armare il governo Sarraj per aiutarlo a combattere l’Isis, come deciso a Vienna d’accordo con gli americani, significa armare un esercito nazionale che non esiste, rafforzare in realtà le milizie alleate di Tripoli, e dunque schierare l’Occidente nella lotta interna libica che minaccia di portare a una divisione del Paese. Il rimedio dovrebbe essere un accordo con il generale Haftar e la creazione di un comando militare unificato. Speriamo. Ma appare più probabile una corsa al riarmo che Egitto ed Emirati Arabi Uniti estendereb­bero più di quanto già facciano alla Cirenaica, scatenando una diffusa guerra civile territoria­le e petrolifer­a.

Le piroette della comunità internazio­nale rischiano così di portare in secondo piano quello che dovrebbe essere l’obbiettivo prioritari­o: la lotta all’Isis. A fianco dei libici che vogliono avere un ruolo nella Libia di domani, con truppe speciali per istruirli ed appoggiarl­i che peraltro noi non abbiamo dislocato (che si sappia) diversamen­te da Usa, Francia e Gran Bretagna, facendo leva sul nemico comune come fattore unificante assai più efficace del governo Sarraj.

La lotta all’Isis, perché da Sirte gli uomini del Califfato minacciano la preziosa (per noi) stabilità della Tunisia. Perché con Boko Haram in Nigeria e con altri gruppi jihadisti dall’Egitto all’Algeria e alla Costa d’Avorio l’Isis ha costituito una rete africana del terrore che minaccia direttamen­te anche l’Europa. Perché fino a quando in Libia ci sarà l’Isis non potremo nemmeno tentare un controllo dei flussi migratori che partono dalle sue coste. E anche perché l’Interpol denuncia una stretta cooperazio­ne tra Isis e trafficant­i di esseri umani, mentre centinaia di migliaia di sventurati aspettano il loro turno e pagano il prezzo della vergogna.

L’Africa è una sfida, costante e decisiva, che dobbiamo raccoglier­e in fretta. E non soltanto a parole.

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