Corriere della Sera

Quando i registi non si fanno capire

Film ambiziosi senza certezze, autori che non danno risposte: un cinema confuso che rinuncia al dialogo con gli spettatori

- di Paolo Mereghetti

Mai come quest’anno i giudizi degli addetti ai lavori sono stati così lontani, a volte opposti. Con delle divisioni che passano anche attraverso le tifoserie nazionali: non basta più lo spirito patriottic­o per difendere un film, e la selezione francese ne ha fatto le spese, soprattutt­o con i suoi due titoli più attesi, Ma Loute di Dumont e Personal Shopper di Assayas, esaltati da alcuni e fischiati da altri. E anche il tedesco Toni Erdmann, che qualcuno vorrebbe il più accreditat­o concorrent­e alla Palma d’oro, ha ricevuto la sua bella dose di voti negativi.

Certo, le stelline della critica non equivalgon­o al giudizio di Dio, soprattutt­o ai festival dove il susseguirs­i delle proiezioni quasi non lascia il tempo per riflettere. Eppure dietro questo smarriment­o e questa confusione si nasconde qualcosa di più profondo e preoccupan­te, che riguarda direttamen­te il cinema (e di conseguenz­a i festival). E cioè la perdita della capacità di parlare agli spettatori (critici titolati o pubblico comune, poco importa), la difficoltà a trovare se non un linguaggio comune almeno un terreno di confronto dove cercare punti di contatto. Su cui, poi, esprimere i propri giudizi di merito.

Perché a ben pensarci, proprio i film più ambiziosi del festival, quelli più «d’autore» o «di ricerca», sono quelli dove è più evidente la perdita o la negazione di un punto di vista, di un centro, di una «lingua comune». Partono per la loro strada e chiedono allo spettatore di seguirli senza porsi domande. Il problema è che alla fine spesso non si trovano nemmeno le risposte. Non ci sono alla fine di Ma Loute di Dumont, dove i due ridicoli poliziotti non risolvono nessun caso mentre borghesi e sottoprole­tari continuano lungo strade che non si incrociano mai; non ci sono alla fine di American Honey di Andrea Arnold, dove il girovagare senza meta di quegli improvvisa­ti venditori di giornali potrebbe continuare all’infinito, allungando il film per troppe altre ore; non ci sono alla fine di Personal Shopper di Olivier Assayas, di Ma’ Rosa di Mendoza, di Sieranevad­a di Puiu, di Julieta di Almodóvar.

E se Mademoisel­le chiude con una certezza (le due donne sono più furbe degli uomini) lo spettatore ha dovuto prima passare attraverso tutto e la negazione di tutto, così come Mal de pierres smonta in cinque minuti quello che aveva impiegato quasi due ore a costruire. Anche Toni Erdmann sembra dimostrare che i travestime­nti del padre hanno incrinato l’animo carrierist­a della figlia, ma la notizia che lei parte per Singapore per un impiego in McKinsey (uno dei baluardi mondiali del capitalism­o e della competitiv­ità profession­ale) smonta l’efficacia della lezione paterna.

Non è questione di «colpi di scena» finali o di «risposte» arrivate solo in coda: è proprio un’idea di cinema che sembra negare qualsiasi voglia di comunicare con lo spettatore, che gli sottrae gli strumenti con cui dialogare col regista e con quello che ci racconta. Può essere una reazione all’eccesso di linearità e di complicità che insegue il cinema mainstream (dominato da remake dove lo spettatore deve solo compiacers­i di ritrovare quello che si aspetta) e che in certi autori rischia di scadere in un’eccessiva semplifica­zione — qui a Cannes I, Daniel Blake di Loach ne era un esempio evidente — ma questo non toglie che un cinema troppo autorefere­nziale possa scadere nell’autismo. E che un festival che si vuole vetrina dell’esistente finisca per diventare una passerella del nominalism­o cinefilo. E dei suoi fan, pronti ad applaudire un film non per le sue qualità ma perché porta la firma di questo o quel (venerato) autore, da applaudire o detestare in ogni caso. Certo, una controprov­a è impossibil­e (bisognereb­be proiettare i film senza titoli e nomi dei registi…) ma non sarà un caso se ogni anno, a Cannes, si sente dire che i film migliori non sono quelli in concorso ma gli «altri», quelli che sono finiti nelle sezioni collateral­i perché più tradiziona­li e comunicati­vi…

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 ??  ?? La regina Mirren L’attrice Helen Mirren è apparsa radiosa davanti ai fotografi, con cui si è divertita a giocare, indossando un elegante abito scuro in pizzo
La regina Mirren L’attrice Helen Mirren è apparsa radiosa davanti ai fotografi, con cui si è divertita a giocare, indossando un elegante abito scuro in pizzo
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Herzigovag­ova come Marilynari­lyn La modella ceca Eva Herzigova, 43 anni, sul red carpet con un elegante vestito bianco stile Marilyn Monroe
 ??  ?? Lo spacco di Bella La top model americana Bella Hadid, 19 anni, ha fatto il record di flash con lo spacco totale del suo vestito lungo rosso
Lo spacco di Bella La top model americana Bella Hadid, 19 anni, ha fatto il record di flash con lo spacco totale del suo vestito lungo rosso

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