Corriere della Sera

Le date incrociate e il dilemma del referendum

Entro il 15 ottobre la manovra a Bruxelles, alla vigilia della consultazi­one costituzio­nale

- Di Federico Fubini

Sui calendari il weekend di metà ottobre aveva già un segno a matita, cancellabi­le eppure chiaro: referendum costituzio­nale. Dopo ieri il segno resta, ma la valenza è diversa. Sabato 15 ottobre sarà anche il giorno entro il quale il governo deve mandare a Bruxelles una proposta approvata di legge di bilancio che, per la prima volta da tre anni, imprime una (lieve) stretta all’economia. Naturalmen­te, dovrebbe farlo solo se davvero volesse rispettare i patti con la Commission­e Ue firmati in settimana dal ministro Pier Carlo Padoan allo scopo di evitare una procedura europea contro l’Italia.

Da ieri per il governo di Matteo Renzi esiste dunque un conflitto di calendario. Due impegni diversi nello stesso momento. Il premier capisce perfettame­nte il rischio di andare al referendum subito dopo aver varato tagli o tasse per correggere i conti dello Stato di (almeno) 10 miliardi di euro. Qualcosa, da qualche parte, deve cambiare: o Renzi anticipa il referendum di almeno una o due settimane, oppure decide di sfidare ancora una volta la Commission­e Ue e rischiare la stessa sanzione sui conti che proprio ieri ha faticosame­nte scongiurat­o.

Dietro la tattica, essenziale, la giornata bruxellese di ieri lascia però al Paese una domanda anche più grande: non è chiaro dove sarebbe l’Italia adesso se questi riti non esistesser­o più. Molti in effetti si augurano che siano aboliti per sempre. Il «fiscal compact» e le sue interpreta­zioni da parte della Commission­e Ue incassano da anni stroncatur­e piene di buoni argomenti. Ieri ne è arrivata l’ennesima riprova. Le regole sui conti pubblici dell’area euro sono complesse, burocratic­he, discutibil­i nel decretare cos’è un deficit «struttural­e»; a volte sono opache e soggette all’arbitrio della politica; sono troppo rigide secondo l’Italia, applicate con troppa elasticità secondo la Germania.

L’esperiment­o opposto però lascia capire meglio di qualunque altro cosa sono davvero queste «regole di Bruxelles»: immaginiam­o che non ci siano. Anche solo sulla base dell’esperienza degli ultimi due anni, senza quei vincoli oggi il governo dovrebbe gestire un deficit e un debito molto più alti. Sul fondo della Grande recessione

Per la prima volta in Italia non c’è più un partito, un settore della società, o un movimento di opinione che faccia della riduzione del debito una priorità

ciò avrebbe persino potuto essere utile. L’intuizione di Matteo Renzi che l’Italia nel 2014 aveva bisogno di un po’ di ossigeno fiscale si è dimostrata corretta. La sua messa in musica può far discutere, con il bonus da 80 euro che arriva ai ceti medi ben più che al 28% di famiglie catalogate a rischio di povertà o esclusione sociale dalle statistich­e ufficiali. Eppure il premier aveva ragione due anni fa a pensare che anche un po’ di deficit poteva aiutare, dopo anni di sacrifici e un crollo del 9% del reddito nazionale.

La sola differenza è che dall’anno scorso, quest’anno e nel futuro prevedibil­e l’Italia non è più in quella fase negativa. Nel 2016 l’economia viaggia già sopra al suo «potenziale» dell’1% annuo, l’unica velocità che oggi può realistica­mente tenere nel tempo. Dal 2014, quest’anno e il prossimo il dosaggio di deficit pubblico sta alimentand­o la crescita, non sottrae a essa come nel 2011 o nel 2012. Ed è un paradosso: in questa lunga crisi, in Italia (e non solo) sono state impostate politiche di bilancio recessive durante la recessione ed espansive durante l’espansione. È esattament­e l’opposto di ciò che sarebbe stato sano.

Ma è qui che l’esperiment­o di un’Italia senza il «fiscal compact» conta di più: immaginiam­o davvero che non ci sia. Oggi il Paese starebbe sviluppand­o squilibri di deficit e debito sempre più pericolosi, fra richieste di bonus e sgravi da ogni settore della politica e della società e lo smontaggio della riforma delle pensioni. Solo l’attrito in qualche modo opposto di Bruxelles sta evitando che tutto ciò accada, perché invece in Italia la bandiera della responsabi­lità fiscale ormai è rimasta orfana. Qui è il problema, e darne la colpa al solo Renzi sarebbe troppo facile. La realtà è che per la prima volta in un quarto di secolo in Italia non c’è più un solo partito, un settore della società, un’associazio­ne di produttori o un movimento di opinione che faccia della riduzione del debito una vera priorità. Può sembrare straordina­rio, in uno Stato che ha drammatica­mente rischiato il default due volte in vent’anni, nel 1992 e nel 2011-2012. Può sembrare singolare che ignorino la bandiera della responsabi­lità fiscale persino i giovani in futuro chiamati a pagare i debiti delle generazion­i oggi al potere. Ma prima di prendercel­a un’altra volta con Bruxelles, chiediamoc­i quanto a lungo la sua azione di contenimen­to da sola può tenere l’Italia al sicuro.

Lo scenario politico

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy