Studentesse rapite da Boko Haram Ritrovata la prima: ha una bambina
Amina liberata con il marito miliziano nella Sambisa Forest. Altre 218 ancora prigioniere
Amina è tornata a casa. La prima. L’unica, tra le studentesse di Chibok rapite da Boko Haram il 14 aprile 2014. Operazione #BringBackOurGirls, ne mancano all’appello 218. Ma almeno Amina c’è. E’ maggiorenne: 19 anni. La sua prima foto: occhi stanchi, una neonata e un piatto in grembo. E’ tornata con una figlia, con un marito. Storie di amori più o meno forzati, di ragazzi rapiti nel Nord-Est della Nigeria al tempo di Boko Haram. Lei viene da Mbalala, villaggio ora quasi deserto a 13 chilometri da Chibok. Lui da Mubi, al confine con il Camerun. Li hanno trovati che vagavano in cerca di aiuto ai margini della Sambisa Forest, l’altra sera intorno alle 19. Amina stava allattando la piccola Safiya, quattro mesi di vita. A salvarli, una squadra della Civilian Joint Task Force, gruppi di civili male armati che l’esercito nigeriano manda di pattuglia. Uno di loro, Aboku Gaji, ha raccontato l’incontro a una reporter della Cnn: «Amina era sporca, sfinita, in cattive condizioni fisiche. Aveva bisogno di un bagno». Maggio da quelle parti è il mese più caldo, 50 gradi all’ombra. La ragazza ha detto che le sue compagne sono ancora là, nelle basi sparse nella savana spinosa di Sambisa, la roccaforte dei jihadisti. Non tutte. Delle 218 studentesse che non sono tornate, «sei sono morte» ha raccontato Amina, senza specificare come.
A casa ha riabbracciato la madre, Binta Ali. A Mbalala abitavano 25 ragazze sequestrate a Chibok la notte degli esami di scienze. Era un villaggio con un grande mercato, dove arrivavano da lontano a comprare animali e fagioli. Ora è un villaggio fantasma. Amina non ha trovato il padre, morto durante questi due anni di sequestro. Altri genitori hanno perso la vita. Per malattia, crepacuore. Amina e il marito, Mohammed Hayatu, ieri sono stati portati alla caserma della Brigata 25 a Damboa. Dovranno raccontare, spiegare, concordare. Sulla liberazione della prima ragazza di Chibok l’esercito e il governo hanno già dato un’altra versione: a salvarla sarebbero stati i militari, non i vigilantes, durante un raid anti-guerriglia. La credibilità delle forze armate di Abuja non è cristallina. All’inizio,
due anni fa, avevano addirittura negato il sequestro, per poi annunciare nel giro di giorni l’avvenuta liberazione di tutte le studentesse!
E così, stando alla prima sopravvissuta, le ragazze di Chibok non si sono poi allontanate dal luogo dove erano state portate la notte del sequestro. Una cinquantina fuggirono gettandosi dai camion. Il capo di Boko Haram aveva annunciato in un video che erano state svendute al mercato. Convertite all’Islam e sparpagliate, date in moglie nei Paesi vicini. In verità anche le indicazioni dei militari Usa, che hanno collaborato alla ricerca con droni e intelligence, puntavano alla Sambisa Forest. Una zona considerata impenetrabile,
dagli anni ‘70 riserva di caccia per ricchi,600 km quadrati di savana, vegetazione alta due metri, sabbia e rovi. Leopardi, elefanti e gazzelle sono spariti. Con l’arrivo di Boko Haram, che dal 2009 conduce una guerra per instaurare un califfato nel Nord-Est della Nigeria, i miliziani hanno preso il posto degli elefanti. Con la differenza che i cacciatori, l’esercito del più popoloso Paese dell’Africa, la prima economia del continente, non sono mai riusciti a espugnare la Foresta. Un grande raid, dicono i militari, significherebbe la condanna a morte degli ostaggi. E così, anziché oltre confine, le ragazze di Chibok sono state date a miliziani locali, che spesso sono loro stessi ragazzi rapiti, come il marito di Amina. Le «mogli liberate di Boko Haram» tendono a essere emarginate. Le chiamano «annoba»: virus, pestilenza. E i figli talvolta bollati come «iene». Anche la libertà è spinosa, fuori dalla Sambisa Forest.
Famiglia Anche il suo compagno sarebbe stato sequestrato e costretto a combattere