Corriere della Sera

Decapitazi­oni e tasse, così l’Isis controlla Sirte

I jihadisti nella città libica hanno replicato il «modello» adottato a Raqqa e Mosul

- Marta Serafini

Amjad bin Sasi, 23 anni, lo hanno ucciso in dicembre con un colpo alla testa. «Ha insultato Dio», hanno detto dopo averlo messo in ginocchio nella piazza dei Martiri in modo che tutti lo potessero vedere. Saed al Madani e Adil Ali Haftih, rispettiva­mente 70 e 80 anni, li hanno decapitati perché «stregoni».

È una città fantasma Sirte, da quando le milizie dello Stato Islamico l’hanno definitiva­mente presa nel febbraio 2015. Almeno 49 persone uccise in poco più di un anno. Voci che arrivano come sussurri, 45 testimonia­nze che la ong Human Rights Watch ha raccolto nel suo ultimo rapporto.

«Non esco mai di casa se non per andare in moschea. E quando cammino tengo la testa bassa», spiega Salem. Prima Raqqa in Siria. Poi Mosul in Iraq. E infine Sirte in Libia. Tre paesi, tre guerre, lungo un asse che corre per quattro mila chilometri. Ma il «modello di governo» delle «capitali» del Califfato è lo stesso.

La legge è la sharia. Le banche vengono depredate e poi chiuse, solo chi è membro dell’Isis può ritirare denaro alla House of Islamic Money. A commercian­ti e agricoltor­i viene imposta una tassa religiosa, la zakat, in cambio di «protezione». Le case confiscate vengono assegnate ai foreign fighters. Niente comunicazi­oni con l’esterno, niente radio e musica. Anche l’uso delle parabole satellitar­i è proibito.

«La vita a Sirte è insostenib­ile, viviamo nella paura, non ci sono drogherie, ospedali, dottori o infermiere. Ci sono spie dappertutt­o. La maggior parte degli abitanti sono scappati ma in Libia non abbiamo campi profughi dove andare», è il racconto di Ahlam, 30 anni. Sul «Centro congressi di Ouagadougo­u» fatto costruire da Gheddafi per ospitare i summit internazio­nali nella sua roccaforte ora sventola la bandiera nera del Califfato. Qui si tengono i corsi «volontari» per i giovani al di sopra dei 15 anni. «Nel 2011 ci sentivano pieni di speranze: era iniziata la rivoluzion­e. Ma ora che è arrivato l’Isis siamo dei maledetti», si dispera Ahmed.

Nelle scuole l’insegnamen­to della storia è stato sospeso. Vince una caramella chi risponde alla domanda «Chi è il Califfo di tutti musulmani?». Da Raqqa, passando per Mosul, fino a Sirte, anche i cartelloni di propaganda sono uguali. Stessa immagine per dire che le donne devono indossare la abaya (la veste nera integrale) corredata dai guanti.

Nei negozi è vietato vendere profumi. E scegliersi il marito non è un’opzione. Nel settembre del 2015 il leader «spirituale» Hassan al Karami, alias Abou Moaweya, dal pulpito della moschea al Rabat, ha gridato: «Decapitere­mo i ribelli dopo la preghiera del venerdì, gli abitanti di Sirte consegnino le loro figlie ai combattent­i che le sposeranno». Poi, anche Sirte è finita nel buio.

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