Corriere della Sera

In povertà un milione di giovanissi­mi La congiura del silenzio

- di Dario Di Vico

Come italiani siamo generosi con le adozioni a distanza ma fatichiamo ad accettare che da noi vivano 1,1 milioni di bambini in povertà assoluta. Che diventano 2 milioni se esaminiamo la povertà relativa, un bambino su 5. Persino nella rissosa lotta politica è rimasto quest’ultimo tabù: la paura di ammettere che in Italia ci sono situazioni che una volta definivamo da «Terzo mondo» e che non coinvolgon­o solo ragazzi stranieri. Questa amnesia convive con un paradosso: la quota crescente di bambini poveri si accompagna alla diminuzion­e delle nascite. Nel 2015 sono state 488 mila, 15 mila in meno del 2014 e nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi. È anche il quinto anno consecutiv­o che la fecondità cala, ora è pari a 1,35 bambini per donna, cifra che andrebbe ancora ridotta se conteggias­simo le sole mamme italiane. La presenza di minori indigenti fa a pugni poi con la tradizione culturale di un Paese che ha sempre manifestat­o calore per i propri figli/cuccioli tanto da sovraaccud­irli e, almeno per le classi abbienti, riempirli di corsi di nuoto/danza, apprendime­nto della seconda e terza lingua, controllo compulsivo via iphone. I sociologi segnalano, infine, un ulteriore trend: il futuro appare incerto e si fanno meno figli anche per concentrar­e benessere, cure e risorse su uno solo.

La mappa del rischio

Il recente Rapporto Istat ha dedicato attenzione al fenomeno indicando nei minori il soggetto che in termini di povertà e deprivazio­ne ha pagato il prezzo più elevato della crisi, peggiorand­o anche rispetto agli anziani. L’indice di povertà relativa che tra il ‘97 e il 2011 per i minori aveva oscillato su valori attorno all’11-12%, nel 2012 ha superato il 15% e ha raggiunto il 19% nel 2014. Al contrario tra gli anziani — che nel ‘97 presentava­no un indice di povertà di 5 punti più grave dei minori — si è osservato un progressiv­o migliorame­nto e oggi la povertà relativa degli anziani nel 2014 è stata di 10 punti meno dei giovani. La crescente vulnerabil­ità dei minori è legata alle difficoltà economiche e occupazion­ali dei genitori, il migliorame­nto della condizione degli anziani è dovuta (invece) anche al progressiv­o ingresso tra gli ultra 65enni di generazion­i con titolo di studio più elevato e redditi sicuri. Commenta la ricercatri­ce dell’Istat Linda Laura Sabbadini: «C’è da rifocalizz­are la mappa del rischio-povertà e le misure di contenimen­to vanno rapportate alle nuove emergenze, superando vecchi cliché e individuan­do strumenti mirati per i singoli segmenti di popolazion­e». Ma dove si addensa il pericolo di indigenza minorile? I bambini del Sud e quelli che vivono con un capofamigl­ia che ha frequentat­o appena le elementari presentano un rischio 4 volte superiore a quello dei residenti al Nord e dei figli di diplomati. I parametri che si usano per definire la deprivazio­ne sono di tipo materiale (carenza di vestiti, giochi e cibo) e immaterial­e (possibilit­à di festeggiar­e il compleanno o fare almeno una settimana di vacanza l’anno) ma conteggian­o, ad esempio, anche lo spazio per poter studiare in casa.

Trasmissio­ne intergener­azionale

Il disagio sfocia in prima battuta nell’abbandono della scuola e al Sud colpisce il 2-3% dei bambini: una media considerat­a inaudita in campo europeo. La onlus Save the children — molto attiva e autorevole — ha pubblicato di recente uno studio sulla povertà educativa: solo il 13% dei bambini tra 0 e 2 anni riesce ad andare al nido e usufruisce di servizi integrativ­i e i divari tra le regioni sono impression­anti. Tra Emilia e Campania/ Calabria/Puglia ci sono anche 25 punti di distanza. Dopo l’assenza precoce dalle aule, e compiuti i 14 anni, i ragazzi scompaiono nella nebulosa dei Neet, ne sappiamo poco e ne vediamo ricomparir­e alcuni come esercito di riserva della criminalit­à o nelle bande degli ultrà del calcio. Dormono a casa dei genitori ma durante il giorno stanno sulla strada alternando­si tra lavoretti, bullismo e vicinanza alla droga. «La povertà minorile è grave per i danni che reca nell’immediato ma ancora di più perché è una condanna, determina in negativo tutto l’iter successivo di vita» sostiene Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro e ora presidente dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibil­e. Siamo dunque nel pieno della «trasmissio­ne intergener­azionale della disuguagli­anza», per questi giovani non partirà nessun ascensore sociale e anzi sono intrappola­ti sin dall’infanzia nella marginalit­à. «Non converrebb­e allora — si chiede Maurizio Ferrera, direttore scientific­o di Secondo welfare — intervenir­e per sostenerli quando ancora la loro esistenza si può raddrizzar­e, invece di chiudere gli occhi e doverli poi supportare per tutta la vita con scarsa efficacia e spreco di risorse».

Proposta provocator­ia

Prima di avventurar­ci nel campo dei rimedi è il caso di ragionare sulla rappresent­anza di questi interessi deboli. La nostra spesa sociale è concentrat­a nella tutela della vecchiaia (nel 2014 equivaleva al 14% del Pil!) e spesso mancano le risorse per altri interventi più lungimiran­ti. Senza addentrarc­i in semplifica­zioni del tipo «meno ai nonni, più ai nipoti» è chiaro che le ragioni dei primi vengono difese in tanti modi: con la loro presenza nella vita civile, con la rivalutazi­one del valore dell’esperienza nella gestione delle complessit­à ma anche con organizzaz­ioni che esercitano pressing sui decisori pubblici. I sindacati dei pensionati, non è certo una novità, hanno un notevole peso nelle confederaz­ioni e presidiano con costanza i temi che li riguardano ma chi difende, invece, le ragioni dei minori poveri? Per rispondere a questa domanda le Acli più di 10 anni fa con l’ex presidente Luigi Bobba, ora sottosegre­tario del governo Renzi, avanzarono una proposta provocator­ia: far votare i bambini attraverso una doppia scheda affidata alle loro mamme. «Solo così il suffragio sarà veramente universale» sostenne e tirò fuori persino una frase del filosofo Antonio Rosmini, «Un voto per ogni bocca da sfamare», ricordando come un’identica idea avesse animato nei mesi precedenti 43 deputati del Bundestag. La proposta è rimasta al palo anche se ogni tanto rispunta carsicamen­te perché nonostante tutte le dissertazi­oni sulla disinterme­diazione in realtà ci si accorge che chi non ha voce (i bambini o le partite Iva) vorrebbe essere «mediato» e quindi caso mai il problema è riequilibr­are il peso delle lobby. Le politiche contro la disuguagli­anza passano anche di lì. Rispetto al passato, va detto, qualcosa si sta muovendo e c’è un protagonis­mo di soggetti assai diversi tra loro come le fondazioni ex bancarie e alcune sigle del terzo settore che fa ben sperare. Proprio nei giorni scorsi Giuseppe Guzzetti ha presentato a loro nome un fondo per il contrasto della povertà educativa che spenderà 400 milioni in 3 anni.

La cultura «anzianista»

Quando si passa alle famose policy c’è subito un bivio. Una vecchia visione, fortissima a sinistra, chiede di tassare i ricchi e redistribu­ire ai poveri ma si presta a mille controindi­cazioni non ultima l’alta pressione fiscale e il rischio che il ritorno avvenga in modo inefficien­te e comunque tardi. Sarebbe dunque da preferire una visione alternativ­a nella cultura e nella tempistica ovvero intervenir­e affinché i giovani non si portino dietro il peso del retroterra familiare. Senonché la delega all’assistenza inserita nella legge di Stabilità 2016, che avrebbe dovuto trasformar­e in provvedime­nti quest’idea razionaliz­zando l’attuale spesa per l’assistenza, è stata via via svuotata e ciò nonostante che Bruxelles ci abbia intimato di intervenir­e sull’indigenza dei minori. Come è possibile, si dirà, che la politica italiana con la sua retorica antiauster­ity si faccia cogliere in fallo dai grigi eurocrati persino in materia sociale? In realtà la lotta alla disuguagli­anza «sin da piccoli» non è nel Dna della cultura politica italiana, la sinistra che oggi monopolizz­a il potere è anzianista e filosindac­ale e il renzismo non ha saputo/voluto cambiare marcia. Anche perché ha la presunzion­e di voler incassare un dividendo subito, da qui la predilezio­ne per lo strumento dei bonus (per i bebè o i 500 euro per la cultura ai giovani). «Il riorientam­ento della spesa sociale verso i minori dà effetti differiti nel tempo — spiega Ferrera — ed esce dall’orizzonte elettorale, così si teme di far arrabbiare gli elettori a cui sono stati tagliati i trattament­i di favori e di esporsi al rischio di punizione nelle urne». Perché come si sa i poveri non votano e i minori tantomeno.

La politica La politica pensa più agli anziani, i minori non votano

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Periferie Milano anni 70 quartiere Quarto Oggiaro. (Foto di Gianni Berengo Gardin /Contrasto)
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