Corriere della Sera

Gli affiliati che l’Isis non sapeva di avere

Milano, erano stati fermati 11 mesi fa. Il nodo giuridico: dimostrare che sono parte dell’associazio­ne terrorista

- di Luigi Ferrarella

Condannati a sei anni i due aspiranti jihadisti che furono arrestati undici mesi fa a Manerbio, nel Bresciano. I due affiliati che l’Isis non sapeva di avere sono un tunisino e un pachistano, parlavano di attaccare la base Nato di Ghedi.

MILANO Semplifica­ta all’osso, la questione è: assodato che lo Stato Islamico autoprocla­matosi fra Siria-Iraq-Libia è associazio­ne con finalità di terrorismo internazio­nale, per il diritto italiano può esistere (e dunque essere condannato per 270 bis e non solo per istigazion­e a delinquere) un partecipe all’associazio­ne senza però che essa sappia di avere un aderente alle proprie finalità terroristi­che? Ieri, per la prima volta non in un rito alternativ­o con giudice monocratic­o (come il 23 febbraio nel caso della sorella della foreign fighter italiana «Fatima» Sergio) ma in un giudizio ordinario, la Corte d’Assise di Milano — presidente Ilio Mannucci Pacini, a latere Ilaria Simi de Burgis — ha risposto sì: e ha condannato a 6 anni il 36enne tunisino Lassaad Briki (addetto alle pulizie) e il 28enne pakistano Muhammad Waqas (autista di una ditta), arrestati 11 mesi fa a Manerbio (Brescia).

Digos e Polizia postale ne avevano colto non concrete attivazion­i di progetti d’attentato, ma parole infuocate su possibili obiettivi come la base Nato di Ghedi o almeno i carabinier­i di guardia («Entrare in una base militare in un Paese di miscredent­i… anche fuori anche dentro… basta ammazzare!»); navigazion­i in Internet sulla fabbricazi­one di bombe a mano; lo studio di un opuscolo dell’esercito del Kuwait su come riconoscer­e un kamikaze; il post di un giuramento

di fedeltà al Califfato, lo stesso dei «mujahedin» nella città natale tunisina di Briki; un manuale, scaricato dalla Rete, di regole per «mujahedin» tra i miscredent­i; e la mania per navigazion­i anonime.

Pur argomentan­do che in teoria non sia necessario che la partecipaz­ione all’associazio­ne terroristi­ca venga per così dire notificata all’organizzaz­ione, in quanto basterebbe che le condotte fossero tenute nel suo interesse, nel caso concreto il procurator­e aggiunto

Maurizio Romanelli e il pm Enrico Pavone hanno invece valorizzat­o una chat con un altro tunisino per sostenere che Briki fosse già riconosciu­to dall’organizzaz­ione e preso in carico quale potenziale foreign fighter. È la chat del giugno 2015 (Briki era in Tunisia) intercetta­ta con un captatore informatic­o poi fuori uso per l’attacco subìto dalla società produttric­e Hacking Team. Quel perduto flusso telematico fu però recuperato nel tablet di Briki: e la chat del 28 giugno mostra, per i pm, che l’interlocut­ore di Briki era un «facilitato­re» del Califfato e gli aveva procurato il contatto per raggiunger­e lo Stato Islamico.

«Discorsi sì esecrabili, ma solo discorsi», hanno replicato i difensori Luca Crotti e Vittorio Platì: anche perché ad esempio l’amico pakistano, al quale Waqas (come confidò a Briki) avrebbe proposto di raggiunger­e lo Stato Islamico, non ci è mai andato e anzi pare tornato in Pakistan. «Non c’era alcuna struttura pronta a compiere attentati, ma una forma di esaltazion­e individual­e», è la linea difensiva analoga a quella di Simone Bergamini e Stefano Zucchiatti, difensori

L’altra sentenza Anche a Trento verdetto severo contro i componenti di una cellula fondamenta­lista

— sempre ieri ma a Trento davanti al giudice Marco La Ganga — di tre curdi e un kosovaro: incriminat­i dai pm trentini Pasquale Profiti e Davide Ognibene, e condannati a 6 anni (Abdul Rahman Nauroz) e a 4 anni (Eldin Hodza, Abdula Salih Ali Alisa e Hasan Saman Jalal) quali partecipi a Merano dell’organizzaz­ione jihadista del mullah Krekar in Norvegia.

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Intercetta­ti Lassaad Briki e Muhammad Waqas in un fotogramma della Polizia: i due avevano nel mirino la base militare di Ghedi

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