Corriere della Sera

Io più forte dell’ISIS Jinan, la storia di una ragazza fuggita dalla schiavitù del Califfato

LA VOCE DELLE DONNE

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«Ci sono le voci delle donne in questo libro, quelle voci che nelle guerre non si sentono quasi mai», scrive Barbara Stefanelli nella prefazione di «Jinan, schiava dell’Isis», che esce oggi in edicola con Il Corriere e in libreria per Garzanti. «Io sono yazidi, curda, irachena sul passaporto», dice l’autrice per definire la propria appartenen­za a una comunità religiosa, a un’etnia e a un Paese straziati da anni di violenze. Gli yazidi sono la comunità più colpita dalla guerra dichiarata dall’Isis al mondo: fedeli all’angelo pavone Tawsi Melek e agli altri sei angeli delle scritture, agli occhi degli integralis­ti sono apostati, adoratori di demoni. Nel 2014, quando i miliziani conquistar­ono Sinjar, nel nord dell’Iraq, gli uomini yazidi furono massacrati, le donne trasformat­e in schiave sessuali. In questo libro, scritto con il reporter Thierry Oberlé, ci sono due voci di Jinan: prima adolescent­e, capace di lottare con la famiglia per sottrarsi a un matrimonio combinato, e poi, adulta ma senza esperienza del mondo, con i carcerieri dell’Isis.

HO QUINDICI ANNI quando conosco Walid a una festa di nozze. Le feste di questo tipo rappresent­ano una grande opportunit­à per far colpo. I ragazzi si pavoneggia­no: gonfiano il petto, si apostrofan­o l’un l’altro, fanno i gradassi. Le ragazze si mettono in mostra, capelli al vento, pantaloni aderenti e corpetti stretti. Walid mi corteggia. Mi colpisce per quanto è impacciato. Nei mesi successivi ci rivediamo diverse volte con i pretesti più inconsiste­nti.

Io, intanto, compio sedici anni, età in cui si pone la questione del matrimonio. Lui mi confessa il suo amore e, per provarmi il suo impegno, mi regala di nascosto un cellulare grigio della Ericsson. Me lo porta in un caldo pomeriggio d’estate. Mia madre, come al solito, lo caccia via sulla soglia: «Vattene! Non sei il benvenuto! Qui non hai niente da fare!».

Quel telefono diventa il filo invisibile della nostra passione. La prima sera mi dice «Ti amo»; la seconda, «Ti adoro». Il nostro appuntamen­to quotidiano è fissato per l’una di notte. Per due anni e cinque mesi, io e Walid andiamo avanti con un’ora di dialogo amoroso ogni notte. E tutto questo senza mai perdere un appuntamen­to né farmi scoprire dai miei parenti.

So che sono contrari per principio a qualsiasi idea di matrimonio con Walid. La mia famiglia non naviga nell’oro, e i miei genitori aspirerebb­ero a un partito migliore. Walid è un operaio edile. Nelle grandi città curde in pieno boom immobiliar­e, grazie al petrolio, passa da un cantiere all’altro e bussa di porta in porta in cerca di lavoro. Un giorno fa il manovale, una settimana il muratore e un mese il disoccupat­o. Per gli yazidi il matrimonio è, come tutti gli eventi più importanti della vita, una questione di famiglia, ma anche di status sociale e di orgoglio. Non abbiamo il diritto di sposarci al di fuori della comunità. Per aver infranto questo tabù, Du’a, una ragazza di diciassett­e anni, è stata lapidata a morte nel 2007 dai membri della sua famiglia, tra cui il padre, contrari alla sua unione con un sunnita.

Mio padre pensa di aver blindato il mio futuro: mi ha destinato a uno dei miei lontani cugini. Mia madre si adegua alla scelta. Non faccio trapelare affatto il mio turbamento, ma sono determinat­a a contrastar­e i progetti dei miei genitori. Walid ha un piano. Un giovedì, mi rapisce. Scappo dalla terrazza, il cellulare e qualche effetto personale in una borsa come unico bagaglio. Lui mi attende all’angolo della strada, poggiato contro un muro.

Ci sposiamo sabato 18 Maggio 2013 a Bajarok.

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