Corriere della Sera

«Così Jinan ha scelto la maternità. E di restare nella sua terra»

- Viviana Mazza

«Jinan è stata la prima donna yazida che ha osato parlare a viso scoperto. Ha aperto la strada. Ha rotto un tabù. Ha reso pubblica la sua testimonia­nza per dare un impatto globale al destino delle ragazze della sua comunità. Voleva dimostrare che, nonostante tutto ciò che ha passato, è rimasta una donna con un viso, capelli, lacrime, sorrisi che l’Isis non è riuscito a contaminar­e». Thierry Oberlé, inviato del quotidiano francese Le Figaro, ha scritto con Jinan «Schiava dell’Isis». Quando la intervistò nel 2014 per un reportage dal Kurdistan iracheno, insieme ad altre ragazze scappate dalla schiavitù del Califfato, lo colpirono le sue parole: «Quando Thierry Oberlé, inviato del quotidiano Le Figaro chiudo gli occhi vedo i mostri», disse, ma poi iniziò a lavorare per superare quegli incubi.

E’ stato difficile per Jinan raccontare a lei, un uomo, le violenze che ha subito?

«So che Jinan non mi ha detto tutto. E’ una sua scelta e io la rispetto perché la sua storia è la sua. Alcune delle violenze che ha subito possono solo essere suggerite nel libro. Si trovano per lei in una zona indicibile per ragioni culturali. Ma la voce delle donne yazide ha cominciato a trovare la libertà attraverso il suo coraggio».

E’ stato difficile per Walid, il giovane marito, accettare il ritorno di Jinan?

« Ora Jinan vive in un campo profughi vicino a Dohuk con Walid, dopo aver rifiutato l’asilo politico offertole dalla Francia. E’ una donna volitiva e intelligen­te che vuole vivere tra la sua gente, nonostante le difficoltà. Ha dato alla luce una figlia poche settimane fa, l’ha chiamata Anouk. E’ anche il nome di mia figlia, che come Jinan ha 19 anni. Suo marito Walid è un uomo buono. La complicità tra loro è fortissima. Li ho visti a marzo, e ho chiesto se non si annoino nella loro tenda. Walid ha risposto: “Non passiamo la serata a guardare la tv. Abbiamo di meglio: ci guardiamo negli occhi”. Gli yazidi sono vittime da secoli di persecuzio­ni religiose. In passato, le donne tornate dalla prigionia sono state cacciate dalla comunità o spinte al suicidio, ma la mentalità sta iniziando a cambiare. Baba Sheikh, il leader spirituale, ha chiesto che le ex schiave siano accettate come se fossero sue figlie. Ma non sempre il suo appello è capito. L’ambiente maschile può essere brutale. Non sempre sono viste come vittime e allora si chiudono nel silenzio e per placare la sofferenza fisica e mentale prendono farmaci. Le più giovani soffrono di forme di delirio e regression­e infantile. E non dimentichi­amo che su 3.455 donne rapite più di 1.900 sono ancora prigionier­e».

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