Alla Francia manca il Gattopardo
Maylis de Kerangal e l’Italia: non vi conosciamo abbastanza, ma io amo Visconti e i vostri narratori Alla vigilia del festival di Montpellier dove il nostro Paese è ospite, la scrittrice parla del suo libro «Lampedusa» (Feltrinelli)
In un caffé del quartiere Odéon, Maylis de Kerangal e l’Italia. L’autrice di Nascita di un ponte e Riparare i viventi partecipa nel fine settimana alla Comédie du Livre di Montpellier, il festival letterario che quest’anno ha l’Italia come ospite d’onore. L’ultimo libro di Kerangal in Francia è Un chemin de tables, reportage nel lavoro di chef attraverso la vita di Mauro, cuoco italiano; ed è da poco uscito per Feltrinelli Lampedusa, viaggio nelle risonanze prodotte dalla notizia di un naufragio di migranti.
Qual è la sua relazione con la letteratura italiana?
«Una decina di anni fa una rivista mi chiese una specie di lettera di ammirazione a qualcuno che per me fosse speciale, e scrissi: “Caro Leonardo Sciascia…”. Al Festival ci sarà Claudio Magris, un autore che ha un’influenza enorme, come il nostro amico che ci guarda (indicando un ritratto di Umberto Eco, ndr). Ho amato Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, e poi Morante, Pavese, Pasolini, Malaparte… Il fatto che l’Italia sia presente a Montpellier ci permette di conoscere meglio una letteratura a noi così vicina, ricca di figure spettacolari, ma anche di una vitalità non così nota. Noi francesi non abbiamo un rapporto di esotismo con l’Italia, la pensiamo più in termini di vicinanza. Di condivisione di una stessa scrittura, ma con voci comunque lavorate in modo diverso».
Oltre ai mostri sacri, ci sono altri autori italiani che le piacciono?
«Mi interessano gli autori emergenti. Non ho uno sguardo da specialista, ma per esempio l’ultimo libro che mi ha enormemente segnato negli ultimi anni è Il tempo materiale di Giorgio Vasta. Molto importante per il suo rapporto con il linguaggio, la politica, la violenza, l’infanzia. Poi c’è Andrea Bajani, che amo molto e che sarà presente a Montpellier assieme a tanti altri ottimi autori italiani. Poco tempo fa ho partecipato a un dibattito alla Maison de la Poésie con Alessandro Baricco: è stato bello. E Silvia Avallone ha scritto Acciaio, un libro incredibile».
Legge in italiano?
«Avevo provato con il romanzo di Vasta, ma è un testo molto denso, ho preferito passare alla traduzione. La cosa che mi colpisce è la varietà dei linguaggi. La Francia è più omogenea, mentre tra la Sicilia e Trieste non è la stessa Europa. L’Italia ha questa ricchezza».
Perché ha scritto «Lampedusa»?
«Sentivo alla radio questa parola, la notizia di una tragedia, e non ho potuto fare a meno di pensare al Gattopardo, il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il film di Visconti con Burt Lancaster. Il motore è stato la parola “Lampedusa”, e poi mi sono venuti in mente Burt Lancaster nelle vesti del principe di Salina, e le altre isole, l’idea di naufragio. Ho lavorato intorno ai nomi dei luoghi, la toponimia è come una specie di demone che permette alla letteratura di mettersi in marcia. La scena del ballo, un terzo del film, è scritta come se fosse un naufragio».
Un testo immune dalla retorica.
«Ho cercato di tenermi lontana dal discorso politico, di non scrivere un testo di indignazione morale, che sarebbe stato facile. Ma l’indignazione di solito non serve alla buona letteratura. Ovviamente i naufragi dei migranti sono una cosa tragica, ma meglio per me proporre una lettura delle cose attraverso il linguaggio, le immagini, le risonanze — questa parola è molto importante — che non riguardano direttamente la tragedia. Come potevo reagire, nella mia posizione privilegiata di scrittrice che vive comodamente a Parigi? Affidarmi all’impegno politico, a un’istanza esteriore alla letteratura, non è il mio temperamento. Ho preferito un gesto dal basso, sincero».
L’ultimo libro, «Un chemin de tables», è un altro testo breve, stavolta sul mondo dell’alta cucina.
«Dopo Riparare i viventi ho avuto due anni molto intensi e l’idea era di continuare a scrivere, ma un romanzo significa trasferirsi su un altro pianeta. Allora mi sono dedicata a questi tre testi brevi: su Lampedusa; sul cuoco Mauro e sulla enorme fatica di guidare la cucina di un ristorante; e un altro ancora non uscito, un reportage su una miniera di ferro che ho visitato in Lapponia».
A quando un nuovo romanzo?
«Sto cominciando. Sono nella fase iniziale, che dura un po’ a lungo».
È la fase delle ricerche?
«No, provo a ricercare e a scrivere più o meno nello stesso momento. Il lavoro di documentazione sul ponte o sul trapianto cardiaco, per esempio, l’ho fatto durante la scrittura, non prima. Altrimenti la fiction diventa solo un modo di diluire il materiale documentario, e invece non bisogna lasciarsi soffocare dai dati tecnici, che pure sono importanti. La letteratura deve essere libera di inventare la sua documentazione. Bisogna conservare una certa velocità di scrittura, di stile».
@Stef_Montefiori