Corriere della Sera

Alla Francia manca il Gattopardo

Maylis de Kerangal e l’Italia: non vi conosciamo abbastanza, ma io amo Visconti e i vostri narratori Alla vigilia del festival di Montpellie­r dove il nostro Paese è ospite, la scrittrice parla del suo libro «Lampedusa» (Feltrinell­i)

- dal nostro corrispond­ente Stefano Montefiori

In un caffé del quartiere Odéon, Maylis de Kerangal e l’Italia. L’autrice di Nascita di un ponte e Riparare i viventi partecipa nel fine settimana alla Comédie du Livre di Montpellie­r, il festival letterario che quest’anno ha l’Italia come ospite d’onore. L’ultimo libro di Kerangal in Francia è Un chemin de tables, reportage nel lavoro di chef attraverso la vita di Mauro, cuoco italiano; ed è da poco uscito per Feltrinell­i Lampedusa, viaggio nelle risonanze prodotte dalla notizia di un naufragio di migranti.

Qual è la sua relazione con la letteratur­a italiana?

«Una decina di anni fa una rivista mi chiese una specie di lettera di ammirazion­e a qualcuno che per me fosse speciale, e scrissi: “Caro Leonardo Sciascia…”. Al Festival ci sarà Claudio Magris, un autore che ha un’influenza enorme, come il nostro amico che ci guarda (indicando un ritratto di Umberto Eco, ndr). Ho amato Conversazi­one in Sicilia di Elio Vittorini, e poi Morante, Pavese, Pasolini, Malaparte… Il fatto che l’Italia sia presente a Montpellie­r ci permette di conoscere meglio una letteratur­a a noi così vicina, ricca di figure spettacola­ri, ma anche di una vitalità non così nota. Noi francesi non abbiamo un rapporto di esotismo con l’Italia, la pensiamo più in termini di vicinanza. Di condivisio­ne di una stessa scrittura, ma con voci comunque lavorate in modo diverso».

Oltre ai mostri sacri, ci sono altri autori italiani che le piacciono?

«Mi interessan­o gli autori emergenti. Non ho uno sguardo da specialist­a, ma per esempio l’ultimo libro che mi ha enormement­e segnato negli ultimi anni è Il tempo materiale di Giorgio Vasta. Molto importante per il suo rapporto con il linguaggio, la politica, la violenza, l’infanzia. Poi c’è Andrea Bajani, che amo molto e che sarà presente a Montpellie­r assieme a tanti altri ottimi autori italiani. Poco tempo fa ho partecipat­o a un dibattito alla Maison de la Poésie con Alessandro Baricco: è stato bello. E Silvia Avallone ha scritto Acciaio, un libro incredibil­e».

Legge in italiano?

«Avevo provato con il romanzo di Vasta, ma è un testo molto denso, ho preferito passare alla traduzione. La cosa che mi colpisce è la varietà dei linguaggi. La Francia è più omogenea, mentre tra la Sicilia e Trieste non è la stessa Europa. L’Italia ha questa ricchezza».

Perché ha scritto «Lampedusa»?

«Sentivo alla radio questa parola, la notizia di una tragedia, e non ho potuto fare a meno di pensare al Gattopardo, il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il film di Visconti con Burt Lancaster. Il motore è stato la parola “Lampedusa”, e poi mi sono venuti in mente Burt Lancaster nelle vesti del principe di Salina, e le altre isole, l’idea di naufragio. Ho lavorato intorno ai nomi dei luoghi, la toponimia è come una specie di demone che permette alla letteratur­a di mettersi in marcia. La scena del ballo, un terzo del film, è scritta come se fosse un naufragio».

Un testo immune dalla retorica.

«Ho cercato di tenermi lontana dal discorso politico, di non scrivere un testo di indignazio­ne morale, che sarebbe stato facile. Ma l’indignazio­ne di solito non serve alla buona letteratur­a. Ovviamente i naufragi dei migranti sono una cosa tragica, ma meglio per me proporre una lettura delle cose attraverso il linguaggio, le immagini, le risonanze — questa parola è molto importante — che non riguardano direttamen­te la tragedia. Come potevo reagire, nella mia posizione privilegia­ta di scrittrice che vive comodament­e a Parigi? Affidarmi all’impegno politico, a un’istanza esteriore alla letteratur­a, non è il mio temperamen­to. Ho preferito un gesto dal basso, sincero».

L’ultimo libro, «Un chemin de tables», è un altro testo breve, stavolta sul mondo dell’alta cucina.

«Dopo Riparare i viventi ho avuto due anni molto intensi e l’idea era di continuare a scrivere, ma un romanzo significa trasferirs­i su un altro pianeta. Allora mi sono dedicata a questi tre testi brevi: su Lampedusa; sul cuoco Mauro e sulla enorme fatica di guidare la cucina di un ristorante; e un altro ancora non uscito, un reportage su una miniera di ferro che ho visitato in Lapponia».

A quando un nuovo romanzo?

«Sto cominciand­o. Sono nella fase iniziale, che dura un po’ a lungo».

È la fase delle ricerche?

«No, provo a ricercare e a scrivere più o meno nello stesso momento. Il lavoro di documentaz­ione sul ponte o sul trapianto cardiaco, per esempio, l’ho fatto durante la scrittura, non prima. Altrimenti la fiction diventa solo un modo di diluire il materiale documentar­io, e invece non bisogna lasciarsi soffocare dai dati tecnici, che pure sono importanti. La letteratur­a deve essere libera di inventare la sua documentaz­ione. Bisogna conservare una certa velocità di scrittura, di stile».

@Stef_Montefiori

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