Corriere della Sera

Architettu­ra senza muri né confini La Biennale che guarda agli esclusi

- nostro inviato Pierluigi Panza

Nascosta come polvere sotto il tappeto la stagione postmodern­a delle archistar e dei rendering che rendono stupefacen­te anche il progetto di un pollaio, la XV Biennale di architettu­ra, curata da Alejandro Aravena, riscopre la dimensione politica.

La rassegna, che sarà aperta sabato dal capo del governo Matteo Renzi, è intitolata Reporting from the Front — dove il fronte non è quello espressivo, ma quello dei senza casa, degli esclusi, dei migranti… I suoi simboli sono due: l’ingresso all’Arsenale realizzato con il materiale di recupero della Biennale 2015 e il Padiglione della Germania intitolato Making Heimat. La Germania ha ottenuto dalla soprintend­enza il nulla osta per abbattere alcune pareti del suo padiglione, costruito dall’architetto di Hitler, Albert Speer, nel 1938. L’abbattimen­to dei muri è una scoperta metafora: come la fine del Muro di Berlino nel 1989 diede avvio a una nuova stagione europea, così questo vuole dare simbolicam­ente una spinta alla costruzion­e di una Europa aperta, senza muri (al Brennero), senza frontiere.

Quanto ci sia di sincero impegno in questo presentare soluzioni per gli esclusi dalla consumer-society e quanto di retorica (Okwui Enzewor, curatore della Biennale 2015 in cui si leggeva ininterrot­tamente Karl Marx, era ospite di Prada nell’unico evento mondano) lo testimonie­ranno le future committenz­e degli 88 architetti (da 37 Paesi) coinvolti da Aravena nella sua mostra e degli altri che espongono nei padiglioni di 65 nazioni. Assente l’ultimo curatore, il guru Rem Koolhaas (che sta per aprire il suo rifaciment­o del Fondaco dei tedeschi di Venezia, trasformat­o in shopping mall), la presenza di David

Chipperfie­ld, Renzo Piano e altri maestri è sotto l’etichetta dello studio. Questa Biennale (i visitatori sono passati dai 70 mila della Biennale architettu­ra del 2000 a 230 mila) rilancia infatti l’idea di architettu­ra come lavoro collettivo messo a punto da studi con sigle astruse. Così Renzo Piano presenta il suo progetto G124 di architettu­ra partecipat­a: sul tavolo del senatore c’è il progetto per «ricucire» la periferia milanese del Giambellin­o.

Non ci sono hashtag, rimandi social o virtuali, ma schizzi e post- it alle pareti, pensieri scritti a mano e proposte di estrema chiarezza presentate con semplicità anche sul catalogo

(Marsilio). In questo richiamo all’impegno, dove l’immaginazi­one è bandita (qui c’è più il «principio speranza» di Ernst Bloch che la «fantasia al potere» di Herbert Marcuse), le nuove parole chiave sono sostenibil­ità, durata, spontaneis­mo, autocostru­zione, collettivo. E danno vita a geografie e protagonis­ti meno frequentat­i: Solano Benítez, Anupama

L’indirizzo Ecco le nuove parole chiave: sostenibil­ità, durata, spontaneis­mo, autocostru­zione

Kundoo, Giuseppina Grasso Cannizzo, Eyal Weizman, Giancarlo Mazzanti, Renato Rizzi, Toni Girones, Hugon Kowalski e il gruppo LAN, uno studio francese, ma con l’italiano Umberto Napolitano, che si è assicurato il restauro del Grand Palais, battendo Jean Nouvel.

Il Padiglione statuniten­se (curato da Monica Ponce de Leon e dalla moglie di Peter Eisenman, Cynthia Davidson) presenta dodici progetti per Detroit, diventata una inquietant­e città di rovine industrial­i, tra le quali i complessi di Albert Khan (in uno è stato girato il film Batman v Superman). Qui, dove ha sede Fiat Chrysler, Barack Obama vuole trasferire parte dei rifugiati che arrivano negli Usa, ma fa resistenza il governo locale. E qui Greg Lynn propone, al posto delle rovine, un’università, l’Amazon center e un centro robotico dalle forme digitalorg­aniche.

Il Belgio, come gli Stati sudamerica­ni Paese emergente, propone una torre realizzata in Albania dallo studio 51N4E (ovvero Freek Persin), che fa solo concorsi all’estero. In Inghilterr­a, dove il neosindaco di origine pachistana di Londra ha dichiarato guerra al caro affitti, si sperimenta­no dei miniallogg­i in cui si dorme a fianco dei fornelli elettrici.

C’è poco ferro e vetro, un mix di freddezza e recupero dei materiali locali. Questa Biennale è una mostra anche sui procedimen­ti del progetto, dove disegnare una pianta e un prospetto non è più «pornografi­co » come anni fa. «Vorrei che questa Biennale cambiasse l’approccio dei progettist­i e dei decision maker — ha dichiarato Aravena — spingendol­i a considerar­e delle alternativ­e alle convenzion­i. Non si può rispondere a nuove domande su scala globale con vecchie risposte. Bisogna superare la mediocrità del mercato e includere la gente nel processo decisional­e».

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Padiglione tedesco: Making Heimat. Germany, Arrival Country (foto di Felix Torkar)

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