RITORNO A CASA
PIÙ SOLI, MA TRA QUATTRO MURA E DA CARVER FINO A KENT HARUF IL ROMANZO RISCOPRE LA DIMORA L’appuntamento Fino al 12 settembre, alla Triennale di Milano, la mostra «Stanze» propone undici modi di abitare. Ogni installazione è accompagnata da un riferiment
Sotto le stelle degli anni Ottanta c’era poco jazz e tanta strada. C’era una solitudine condivisa che scopriva nuovi collanti: la moda, per esempio. O l’amore «diverso», tra paura e orgasmi nuovi. La casa c’era, ma era un punto di partenza: la fiumana di ragazzi che di sera sciamava in cerca di un indefinito divertimento (come nei romanzi di Tondelli) partiva da casa e — se vi era — vi era per smaltire una solitaria malinconia ubriaca. Poi, poco alla volta, la letteratura ha messo in scena un difficile ritorno. Fino a oggi, quando romanzi come Atti osceni in luogo privato di Marco Missiroli misurano la formazione di un ragazzo, Libero, nel perimetro delle mura domestiche. Reali e simboliche: a tavola e attraverso le dinamiche della separazione dei genitori.
Che succede? Stiamo davvero «tornando a casa»? A voler leggere con occhi diversi la mostra «Stanze» di Beppe Finessi, alla Triennale, l’ipotesi sembra plausibile. In un viaggio che va dalla metà degli anni Ottanta a oggi, 11 autori diversi per età e sensibilità hanno inscenato metafore dell’abitare, con installazioni. Accanto a ciascuna «stanza», il filosofo Francesco M. Cataluccio ha associato un libro, di quelli che, negli ultimi trent’anni, hanno
E anche gli architetti riprendono a occuparsi dei temi legati alle abitazioni
davvero inciso sulle nostre vite:
da L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera (1984) a L’arte di scomparire, di Pierre Zaoui, tradotto da Il Saggiatore l’anno scorso.
E questo percorso, che va dall’omaggio di Umberto Riva a Le Corbusier, con una riedizione del famoso Cabanon (il minirifugio estivo che l’architetto volle costruirsi come un’ode all’arte della sottrazione e della solitudine consapevole) fino alla condivisione equa degli spazi ideata da Andrea Anastasio (che ha immaginato una dimora divisa in due, democratica spartizione degli ambienti per una coppia che rinuncia alla simbiosi), sembra ricalcare quello compiuto dalla letteratura dagli anni Ottanta a oggi. Il Cabanon che altro è se non quell’ autosufficienza emotiva dei maschi di Carver, che della casa non avevano bisogno? E infatti, negli anni 70 e 80, lo scrittore americano spesso ambientava le sue storie nelle stanze d’albergo. Una casa che era fuori casa, come nei film di Wenders, intrisi di neon e di luci metropolitane, sulla scia umorale e metafisica dei personaggi di Hopper.
Gli anni Novanta poi si sono aperti con Deception, straordinario romanzo in cui Philip Roth fa a pezzi la famiglia altoborghese. E la casa torna a essere la prigione in cui si è costretti, ma dalla quale si può evadere, reinventando il presente (sono gli anni fulgenti di King e Spielberg) o sottraendosi fisicamente (come Thomas Pynchon, autore di culto che non si mostra mai in pubblico). L’abitare, dunque, ha bisogno di una forma aperta, come nei lavo ridi Ma nolo De Giorgio di Francesco Librizzi, in mostra.
Poi arriva Trainspotting. A metà degli anni Novanta, Irvin Welsh inventa una nuova, radicale, forma abitativa: non in casa ma nemmeno fuori casa, in una dimora allegorica che è quella della droga, una realtà parallela, sorprendentemente vicina alla realtà virtuale. Vicina alle monadi (adulti e giovani sempre più isolati, persi nelle cuffie o nelle navigazioni solitarie sui tablet) che oggi sono tornate ad abitare i nostri appartamenti, come conferma il curatore di questa mostra, Beppe Finessi: «Il ritorno alle case è dimostrato anche dal fatto che l’architettura sta riprendendo a occuparsi dei modi di vivere la quotidianità domestica. Pensi che io stesso, architetto e docente al Politecnico, ho tenuto chiusa per anni una stanza della mia casa che, originariamente, era stata fatta per poterci guardare la televisione. Io non guardo la tv e così quella stanza è stata inservibile fino a quando, di recente, si è deciso di cambiarne l’uso». Dunque, la casa come estremo ritorno. Anche letterario. Uno dei libri più belli e apprezzati che sono stati tradotti negli ultimi mesi è Benedizione, di Kent Haruf (NN editore): al capezzale di un padre morente si raduna tutta la famiglia, con tanto di vecchie ruggini e vergogne insepolte. Mala casa diventa un luogo ancora, sorprendentemente, capace di cancellare vecchie colpe e appianare dissidi. Torniamo a casa. Più soli, è vero, ma ci torniamo ancora.