I due bravi nullatenenti nella favola di Binasco
«La favola del denaro » la chiama Valerio Binasco, che ne è regista al Piccolo Eliseo: si tratta di John e Joe di Agota Kristof: i due «stralunati nullatenenti — quella favola — sono i soli ad averla compresa». Per dire che non di pura clownerie è questione. Anzi, meglio: non di solo Beckett si vive e tramanda. La scrittrice ungherese che nel 1956, a ventuno anni, fuggì con il marito e un infante di quattro mesi in Svizzera, cominciò a scrivere per il teatro alla fine degli anni Sessata. È lei stessa a raccontare in uno dei suoi smilzi libretti ( L’analfabeta, 2004) che John e Joe fu la sua «prima pièce — allestita in un’osteria, al Café du Marché di Neuchâtel», dove viveva. All’inizio, e in fondo per tutta la commedia, John e Joe sono senza alcun dubbio personaggi beckettiani — ma, a pensarci bene, beckettiano, almeno nel senso di paradossale, è anche il colpo di scena che chiude Il grande quaderno. Il romanzo dette alla Kristof la celebrità: anche lì due personaggi, due gemelli, che si amano e di continuo si escludono l’un l’altro.
Di diverso, nella commedia, c’è appunto la faccenda del denaro: l’escludersi a vicenda, nella stessa, reciproca inseparabilità, è il paradosso di quel biglietto della lotteria che rende ricco e generoso quello dei due che ne era il (potenzialmente) fortunato proprietario fino al giorno prima. Da esile che era John e Joe diventa ricco, intendo, di trama. Povero, disadorno, di modesta produzione è invece lo spettacolo: un regista come Binasco di questo si deve accontentare in un’intera stagione? Di un tavolino, un fiore, due sedie e due attori fin troppo bravi — bravi fino alla stucchevolezza cui giungono per rendere la faccenda un po’ più corposa?
Siamo sempre allo stesso discorso. Walter Pagliaro, fino a ieri consigliere delegato dell’Istituto del Dramma Antico a Siracusa, in una lettera mi ha raccontato la vicenda della sua estromissione. Vicenda agghiacciante, che non posso qui riassumere, ma che vede oggi al vertice dell’Inda, in qualità di commissario, quel sindaco della città che, con l’avallo del ministro competente, ne era uno dei cinque rappresentanti.
Più di tanto non ci si meraviglia se il teatro italiano è com’è. È normale che Federico Tiezzi nell’arco di un anno abbia diretto quattro grandi spettacoli, uno proprio a Siracusa, uno al Teatro di Roma, uno al Piccolo di Milano, e uno con la sua compagnia e il sussidio di mille altri? O che, come ho ricordato in un precedente articolo, il dominus di Torino, Mario Martone, sia chiamato a Spoleto? O che Gabriele Lavia, cui in Toscana non mancano certo i mezzi, sia ora di nuovo all’opera a Siracusa? I direttori di teatri e festival sono così privi di fantasia, di mobilità? O sono così privi di conoscenza, ossia così ignoranti? Tiezzi, Martone, Lavia saranno o sono senz’altro bravi registi. Pure, lo posso garantire per pura esperienza, non sono gli unici. (Dimenticavo: i due interpreti di John e Joe sono i simpatici, esaltati, vocianti, «stralunati» Nicola Pannelli e Sergio Romano).