Corriere della Sera

O Rei incorona il calcio di Messi

«Oggi è il più grande, ha un suo stile unico Si pensa troppo alla difesa, non mi diverto più»

- Carlos Passerini

Anche se ogni gradino gli costa una fatica del diavolo, e per salire sul palco lo devono aiutare in due, è sempre il Re. Edson Arantes do Nascimento detto Pelé non corre più, non correrà più, colpa di quell’anca maledetta che ogni poco scricchiol­a e lo costringe a dolori e stampelle, rendendolo più umano di quanto già non faccia il suo eterno sorriso da mineiro, ma per il resto i 75 anni non gli hanno levato nulla: né l’imprevedib­ilità, né la tecnica, né il genio, né il tempismo, né il senso dell’anticipo, dello spettacolo. In Brasile tutto questo ha un nome, ginga, una parola che Chico Buarque de Hollanda ha infilato nell’ultimo verso di una sua canzoni più belle, Fùtebol, dedicata proprio a lui, al Più Grande. La ginga è il passo base della capoeira, ma è un concetto più ampio, quasi filosofico: è il gusto per il colpo a sorpresa, per la giocata a effetto. « Il più grande di tutti? Messi». Un argentino, già. Non Cristiano Ronaldo, tantomeno il suo connaziona­le Neymar. «Leo oggi è il giocatore che preferisco. Lo stile di Messi è completame­nte diverso da quello di Cristiano. Neymar è anche uno dei più bravi, ma ogni giocatore è differente dall’altro. Come in musica, un bravissimo musicista non è identico ad un altro bravissimo musicista».

Sarà, però intanto a Neymar ne ha cacciata un’altra, dopo quella — pesantissi­ma — del dicembre scorso, quando lo derubricò come «un buon giocatore» affermando che Vasconcelo­s, ex centrocamp­ista del Santos negli anni Cinquanta, «era 10 volte meglio». Su o giù dal palco, è sempre e comunque O Rei: ti volti un istante e ti fulmina, come quella volta contro di noi a Città del Messico, nel ’70.

Mai stato uomo da ggiocate o risposte scontate. «Il calcio di oggi non diverte più, ci sono tanti bravi calciatori, ma stannostan­va tutti chiusi, sulla difensivad­ifensiva». InInfatti poi, dopo aver tirato totirato dritdritto sul pronostico della finale di Champions di sabato, ha spispiegat­o che potendo scegliere glieresceg­liere oggi giocherebb­e nel BarcelBarc­ellona, «perché quelli sì che giogiocano e si divertono». La ginga, esatto.

Già, peccato che età e salute non glgli consentano di farsi vedere derevedere ppiù spesso dalle nostre parti. Sempliceme­nte perché Pelé è sempre Pelé. Per dire: ieri, a un certo punto, al termine netermine ddella conferenza stampa in Sala Buzzati a Milano ddove ha presentato il film

bbiografic­o in uscita stasera, quasi è dovuta intervenir­e la sicurezza. Troppa calca. Nota a margine: era una conferenza riservata alla stampa.

Durante la quale ha spiegato perché ha detto sì al progetto del film (i registi sono i fratelli Jeff e Mike Zimbalist, il produttore Brian Grazer, premio Oscar per A Beautiful Mind) dopo averne letto il copione: «Quando sono venuti a casa da me per dirmi che volevano fare un film sulla mia vita ho pensato fossero matti, poi ho letto la trama e mi sono commosso, perché si parlava della mia famiglia povera». Tanto che poi ha accettato di diventarne anche coprodutto­re: «Il messaggio del film è dire ai ragazzi che con impegno possono arrivare dove vogliono, come ho fatto io».

Pelé: Birth of a Legend («la nascita di una leggenda») infatti si concentra sull’inizio della sua carriera, dall’infanzia povera a Três Corações fino al Mondiale del ’58, quello della sua epifania, vinto a soli 17 anni. «Eppure non fu quella la mia vittoria più importante — ha spiegato — ma quella di Messico ’ 70. Allora ero più grande e più maturo, e sapevo che quello sarebbe stato il mio ultimo Mondiale». Così come il gol più difficile dei suoi 1.281

è stato, parola sua, il millesimo, segnato il 19 novembre 1969 contro il Vasco da Gama, e ancora ben impresso nella sua mente: «È stata l’unica volta in cui mi sono tremate le gambe al Maracanà. Segnare un rigore sembra una cosa facile, ma non quella volta».

Poi, fra una battuta e un’altra, alcune anche in buon italiano, il racconto è tornato al 1958. «Quando arrivammo in Svezia nessuno sapeva chi fossimo, i giornalist­i pensavano che fossi argentino o uruguaiano. Poi, quando abbiamo vendicato il Maracanazo del 1950, otto anni dopo, hanno capito chi era il Brasile». Migliore di quello attuale, questo senz’altro. Che non abbia una grande opinione sulla Seleçao attuale ( solo settima nel ranking Fifa a un’eternità dall’Argentina, prima) è cosa piuttosto nota, specie dopo la drammatica umiliazion­e al mondiale domestico del 2014: «Per il Brasile è stato un disastro senza spiegazion­i. Avevo 9 anni quando ho visto mio padre piangere per il Maracanazo. Due anni fa, quando siamo stati umiliati dalla Germania per 7- 1, mio figlio ha visto piangere me. Com’è strana la vita, a volte». A volte. A volte invece ti sembra che il tempo non passi, anche se è passato.

Emozioni e lacrime Mi tremarono le gambe al mio gol numero mille, il Mondiale ’70 il più bello Piansi per il 7-1 con i tedeschi Quando sono venuti a casa mia a dirmi che volevano fare un film ho pensato che fossero tutti matti Poi mi sono commosso

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