Corriere della Sera

Torna il marò, rivincita della diplomazia

Intesa con l’India sul rientro di Girone in attesa dell’arbitrato. «Sarà con noi il 2 giugno»

- di Danilo Taino

Salvatore Girone (nella foto) può far ritorno a casa dopo quattro anni. La Corte Suprema indiana ha concesso l’immediata esecuzione dell’ordine del Tribunale arbitrale internazio­nale dell’Aja. Così il marò potrà rientrare in attesa che si svolga tutto il procedimen­to arbitrale. Girone sarà in Italia probabilme­nte alla fine di questa settimana, sicurament­e sarà a Roma per la festa del 2 giugno, anche se è improbabil­e che sfili durante la parata.

Pare che tra i giovani romani sia diffusa una frase-tormentone da usare in ogni occasione: «E i marò?». E i marò tra pochi giorni saranno entrambi in Italia. La Corte Suprema indiana ha deciso il rientro immediato di Salvatore Girone da Delhi; Massimilia­no Latorre è già qui. I ragazzi hanno però ragione: sembrava che la vicenda dovesse trascinars­i per sempre, estenuante. Non che sia finita: tra qualche anno ci sarà il processo per l’uccisione di due pescatori al largo delle coste del Kerala avvenuta il 15 febbraio 2012, nel frattempo si discuterà di fronte a un collegio arbitrale internazio­nale sul dove tenerlo. Ma, intanto, i due Fucilieri di Marina potranno aspettare la decisione in Italia, il contenzios­o bilaterale tra Roma e Delhi sarà «solo» una questione di diritto internazio­nale (quindi meno politica) e le polemiche e le ansie potranno sgonfiarsi.

Dopo un rosario di errori nella gestione del caso, è un successo per l’Italia. Non definitivo, ma carico di insegnamen­ti politici e diplomatic­i: non c’è niente come una buona crisi per imparare. Ricostruir­e com’è stata gestita in oltre quattro anni la disputa con Delhi non sarà pacifico, ci sono opinioni molto diverse. Qualche punto fermo si può però stabilire, tenendo presente che il ritorno di Girone non è «una vittoria»: del merito delle accuse non si è parlato nei tribunali e la decisione di farlo rientrare è una misura provvisori­a.

Il momento chiave dei quattro anni sta nella decisione di avviare le procedure per l’arbitrato internazio­nale. Si è trattato del passaggio dalla ricerca di un accordo politico con l’India al mettere le cose su un terreno giuridico. Non è stata però una svolta semplice, anzi. Dal momento in cui i due marò si consegnaro­no alle autorità indiane, l’Italia cercò una soluzione diplomatic­a, governo Mario Monti a Roma, governo Sonia Gandhi a Delhi. Non si poteva fare, per motivi politici soprattutt­o indiani: la signora Primo ministro sarebbe stata accusata di «favoritism­o italiano». Ciò nonostante, quella strada fu perseguita a lungo da Roma e ciò significò riconoscer­e l’autorità della giustizia indiana sul caso. Un errore che ha allungato la sua ombra su tutti gli anni successivi.

A un certo punto, a Roma — governo Letta, al ministero degli Esteri Emma Bonino — ci si rese conto che l’unica soluzione sarebbe stata fare uscire il contenzios­o dal rapporto politico bilaterale e metterlo su un binario di diritto internazio­nale: l’Italia riteneva che, quel 15 febbraio 2012, Girone e Latorre fossero in missione antipirate­ria protetti dalla bandiera e dallo Stato italiani; il processo, dunque, non doveva tenersi in India ma in Italia. Al ministero degli Esteri fu presa la decisione di avviare la procedura per l’arbitrato internazio­nale e quindi di non riconoscer­e più la giurisdizi­one indiana sul caso. Ma la situazione era compromess­a: per quasi due anni si era riconosciu­to nei fatti il diritto degli indiani di processare Girone e Latorre, difficilme­nte un tribunale internazio­nale avrebbe accolto favorevolm­ente il cambiament­o di strategia italiano. Si trattava di ricostruir­e il caso.

Cambiava però di nuovo il governo: Renzi a Palazzo Chigi e Federica Mogherini alla Farnesina. E a Delhi andava al potere Narendra Modi. La nuova ministra degli Esteri italiana seguiva la strada tracciata e per preparare l’arbitrato nominava un nuovo gruppo di giuristi internazio­nali guidati dal britannico Daniel Bethlehem. A fine 2014, Mogherini si trasferiva a Bruxelles, Renzi tentava senza successo la scorciatoi­a di un accordo tra servizi segreti. Fino a quando, il 26 giugno 2015, veniva chiesto formalment­e l’arbitrato internazio­nale — agli Esteri Paolo Gentiloni, alla Difesa Roberta Pinotti —, poi sostenuto da una forte iniziativa diplomatic­a. Si è così arrivati alla soluzione di questi giorni. Il tutto tra polemiche e accuse di incompeten­za.

Per un’Italia che non ha frequenti contenzios­i internazio­nali del genere, si è trattato in realtà di un processo di apprendime­nto, passato da più governi. Importante ora discutere degli errori, anche se per una commission­e parlamenta­re sarebbe meglio attendere la fine della vicenda. Meno importante impegnarsi su colpe e meriti, che possono essere distribuit­i copiosamen­te ma con la consapevol­ezza che per molto tempo nessuno ha formulato una strategia chiara. Soprattutt­o, occorrerà riconoscer­e il punto chiave: quando non si è in guerra e quando si ha un contenzios­o interno alla comunità degli Stati, un Paese serio ha un’arma potente, il diritto internazio­nale. Che non è fatto per litigare ma per risolvere i litigi e normalizza­re i casi insolubili per altre strade. Sembra poco politico ma richiede coraggio: in tribunale si può perdere. Ma l’alternativ­a l’avevano colta i ragazzi di Roma.

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