Corriere della Sera

Ottone, la passione delle regole

A quasi 92 anni l’ex direttore del «Corriere» si mostra preoccupat­o ma invita a coltivare la speranza «I fatti vanno separati dalle opinioni. E serve spazio per grandi voci libere, come Pasolini»

- di Antonio Ferrari (hanno collaborat­o Davide Casati e Alessia Rastelli)

A vederlo seduto sul sofà, lo sguardo attento che scruta i suoi colleghi e che, per qualche istante, si alza per cercare nuova ispirazion­e nelle acque del mare che circonda la sua casa di Camogli, offre davvero l’immagine del riposo del guerriero. Di sicuro quest’immagine non gli piace, in quanto non si sente a riposo e neppure si considera un guerriero.

Piero Ottone, il direttore che ha segnato indelebilm­ente l’ultimo mezzo secolo abbondante di storia del giornalism­o italiano e che sta per compiere 92 anni, continua a ritenersi un semplice spettatore che ha avuto la fortuna di fare il mestiere più affascinan­te, perché il giornalism­o è la vera palestra della curiosità, senza limiti, senza gabbie di appartenen­za, e senza paura. Racconta: «Quando mi sussurrava­no: “Sei direttore del ‘Corriere della Sera’ da 10 giorni e già c’è chi trama contro di te”, mi veniva da sorridere. Primo perché non conosco direttore che sia stato immune da trame e da complotti, persino subito dopo la sua nomina; secondo perché non me ne importava nulla. La sera andavo a dormire tranquillo e sereno. E se mi avessero cacciato il giorno dopo, pazienza. Non avrei sicurament­e sofferto, perché non sono mai stato divorato dall’ambizione».

Chi ha avuto la fortuna di averlo come condottier­o, come il più anziano di noi tre, non può che confermare. Ottone è stato l’interprete di una stagione probabilme­nte irripetibi­le. Anglofilo, di cultura liberale, ha rappresent­ato davvero la prima grande scossa a un giornalism­o ingessato, incapace di interpreta­re la realtà, vittima di preconcett­i e di ottuse chiusure. Al «Secolo XIX», che diresse prima di arrivare al «Corriere della Sera», dove nel passato si era distinto come uno dei migliori inviati speciali, dovette faticare per far capire che i comunisti erano una realtà di Genova e del Paese e che bisognava ascoltarli: magari per poi criticarli aspramente. «Abituiamoc­i a pensare che non hanno la coda».

Adesso, il direttore ha accolto e inghiottit­o qualche riflession­e amara, forse inevitabil­e. Essendo un convinto seguace di Oswald Spengler, lo storico tedesco che un secolo fa prevedeva e spiegava l’inevitabil­e declino dell’Occidente, ritiene che la nostra civiltà stia vivendo il suo epilogo. Lento ma inesorabil­e, come l’epilogo di tutte le civiltà che l’hanno preceduta. Il suo pessimismo della ragione vede un’Italia avvitata nei suoi limiti. In fondo è scettico perfino sull’unità di un Paese che non ha mai saputo curare i propri difetti. Capace di seguire l’uomo forte o affascinan­te (Ottone conferma di aver ammirato, da ragazzo, Benito Mussolini), senza capirne

Difetti nazionali Noi italiani ci lasciamo affascinar­e facilmente dall’uomo forte di cui non capiamo per tempo i limiti. È un po’ il caso di Renzi, che ha modeste capacità di visione politica ma una grande energia

Le difficoltà dell’Europa Non saremo mai una federazion­e Gli Stati Uniti lo sono diventati con una guerra terribile. Non riesco ad accettare l’ipotesi della Brexit, ma forse solo uno choc può dare all’Ue la forza di ricomincia­re daccapo

Rischio decadenza Trovo sciocche le offese rivolte all’Islam da «Charlie Hebdo» Mi colpiscono l’assenza di senso di responsabi­lità e la mancanza di una vera classe dirigente. Anche questo è un sintomo del declino

per tempo i limiti. Il direttore racconta l’avventura di un leader onesto come Enrico Mattei, vigoroso rappresent­ante di un’evidente contraddiz­ione: uomo di Stato e insieme condottier­o privato di un’azienda, l’Eni, di cui non possedeva neppure un’azione. Questa anomalia si confonde con altri esempi, «con Berlusconi, e adesso con Renzi, che ha modeste capacità di visione politica, ma ha una grande energia».

Ottone non è stato sedotto dalle nuove tecnologie e dai social media. Ci ha detto: «Credevo che il buon Dio avesse ancora un po’ di pazienza, e prima di permettere la diffusione di telefonini e altre diavolerie aspettasse la mia scomparsa. È stato dispettoso. Ha deciso prima. Lo dico scherzosam­ente, perché di tecnologia avanzata non capisco nulla. Se mi chiedete se vedo, per i giornali, un futuro di carta o di web, rispondo che ritengo il web inevitabil­mente vincitore. Ma si potrebbe fare qualcosa per prolungare l’agonia della carta. Comunque, le regole del buon giornalism­o, per me, sono sempre le stesse: i fatti separati dalle opinioni. Sì, lo so, ora mi chiederete del mio “Corriere” e di Pasolini in prima pagina». Beh, direttore, è inevitabil­e. «Vedete, io ho fatto l’inviato e il corrispond­ente dall’estero. Ho letto avidamente i giornali stranieri. Parlando con discreta proprietà l’inglese, il francese, il tedesco, e parlottand­o il russo, ho capito che i grandi giornali avevano la cura di offrire uno spazio, una Tribuna libera, a intellettu­ali o politici che la società riteneva importanti. Devo la scelta di Pasolini al mio vicedirett­ore Gaspare Barbiellin­i Amidei. Fu lui a suggerirmi il suo nome, e approvai. Finì come articolo di fondo, in prima pagina, in un giorno avaro di notizie. Quando dissi: “Abbiamo qualcosa di nostro?”, Barbiellin­i mi raccontò dell’articolo molto duro che aveva nel cassetto. Lo pubblicai senza neppure chiedere il contenuto. Non lo lessi. Mi fidavo di Barbiellin­i. Certo, mi viene da sorridere. Ho l’impression­e che ci si ricorderà di me solo per due cose: per Pasolini e per aver dato spazio e dignità alle previsioni meteo».

Cosa pensi della crisi dell’Unione Europea?

«Non saremo mai una vera federazion­e. Gli Stati Uniti, per essere forti e coesi, hanno avuto bisogno di una guerra lunga e sanguinosa. Da europeista della prima ora, dico che dobbiamo comunque ricomincia­re daccapo, correggend­o gli errori di un progetto di costruzion­e forse frettoloso. Se non si ricomincia daccapo, beh, temo che il rischio di uno sgretolame­nto sia molto serio... Mi chiedete della Brexit, e del referendum che si terrà tra poche settimane. Certo, ve l’ho già detto, sono un convinto anglofilo e non riesco a immaginare una Ue senza l’Inghilterr­a, ma nello stesso tempo penso che soltanto uno choc potrebbe convincere i Paesi dell’Unione a fare quel che finora non hanno fatto. Mi spiego meglio. Non intendo dire che la Brexit sarebbe un bene, ma mi spinge a pensare l’idea che gli altri Paesi dell’Ue, davanti al pericolo del definitivo collasso del progetto, farebbero qualcosa di importante. Certo, non tutti abbiamo la stessa moneta, parliamo lingue diverse, ma almeno occorrereb­be una volontà comune». Una visione amara, direttore? «Non so se sia amara. Penso sia realistica. Anch’io ho i miei preconcett­i, che affiorano seguendo i tempi della mia anagrafe. Sono contro le semplifica­zioni, gli insulti, ad esempio la sciocca e ottusa propaganda anti islamica di “Charlie Hebdo”. Mi colpiscono l’assenza di senso di responsabi­lità e la mancanza, in Italia ma non solo, di una vera classe dirigente. Anche questo mi sembra il sintomo del declino. Tuttavia, dico sempre: non abbandonia­mo la speranza».

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In tipografia A sinistra: Piero Ottone, al centro, osserva una pagina del «Corriere della Sera», di cui è stato direttore dal 1972 al 1977 (foto di Uliano Lucas). Qui sotto: Ottone oggi nella sua casa di Camogli
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