Corriere della Sera

La fortuna (nascosta) della piccola Islanda

- Di Beppe Severgnini

Gli accappatoi. Perché rifiutano gli accappatoi? Nel Laundromat Café di Reykjavik — al piano inferiore, una lavanderia a gettone — se lo chiede un giovane filmmaker del Molise, Nicola Santoro. «Se metti l’accappatoi­o, qui ti prendono in giro. (Nella foto, la festa islandese)

Piscine, pozze calde, spogliatoi: si usano teli, non accappatoi. Una calciatric­e italiana è arrivata portandosi il suo, le compagne di squadra la prendevano in giro. In bikini nella neve, magari. Accappatoi, mai!».

C’è qualcosa di simpaticam­ente folle in questo minipopolo che sogna in grande: a Euro 2016, e non solo. Copertura 3G ubiqua, strade asfaltate facoltativ­e. Amano la natura, cacciano le balene. Sono pratici come i nordici, fatalisti come i latini (motto nazionale «petta reddast», alla fine le cose s’aggiustano). Temono i vulcani (ricordate Eyjafjalla­jökull nel 2010?), ma si prenotano per assistere da vicino alle eruzioni. Nei campi lavici, dicono, s’aggira il «popolo nascosto« (elfi e gnomi, fate e spiriti dei monti). Non in questi giorni. È riunito davanti ai televisori basaltici per tifare Islanda.

Avevo visto Reykjavik nell’estate 1980: un villaggio. L’ho ritrovata in questi giorni: è ancora un villaggio, con una periferia più grande. Un piccolo paradiso terrestre? Non proprio. Scrive Hallgrimur Helgason in Reykjavik 101 (lui è il Philip Roth locale, il romanzo un Lamento di Portnoy artico): «Reykjavik una scura mattina d’inverno: una piccola città in Siberia (...). Una poltiglia masticata nell’oscurità. Le montagne-pile di vecchi detriti, rifiuti dimenticat­i, una discarica dei tempi riscaldati, ferrovecch­io dall’Età del Bronzo, indurita diarrea glaciale...».

Eppure è d’inverno che gli islandesi hanno imparato a capire, amare e giocare a calcio (in quest’ordine). Campi geotermici, campetti dovunque: vicino alla spiaggia nera di Vik (sud) e nella sera assolata di Seydisfjör­dur (est), tra cascate bianche e lupini blu. Un’isola sportiva di ghiaccio e di fuoco, che cura i suoi affari. Dopo aver rischiato la bancarotta nel 2008, oggi è amata dai turisti (nonostante i prezzi) e cercata dagli emigranti (nonostante il clima). Più l’Europa s’avvita e il mondo si spaventa, più quest’avamposto appare desiderabi­le. Mi dice un’albergatri­ce di Akureyri, la seconda città, affacciata a nord: «Se negli Usa eleggono Trump, aspettiamo gli americani: spazio ce n’è».

I nomi tutti uguali? Mai prendere in giro quello che non si conosce. Solo il 10% degli islandesi hanno un cognome vero e proprio. Gli altri solo nome di battesimo e patronomic­o, derivante dal nome del padre ( più raramente della madre). Aron, figlio di Gunnar, è Aron Gunnarson (capitano della Nazionale). Björk, figlia di Guðmund, diventa Björk Guðmundsdó­ttir (cantante). I nomi devono essere islandesi e venire approvati da apposita commission­e. L’elenco telefonico è in ordine alfabetico secondo il nome di battesimo.

Questi sono i posti, questa è la gente che ha prodotto la squadra più divertente di Euro 2016, seguita in Francia da un decimo della popolazion­e: 324 mila innamorati dei loro giganti biondi che tirano le rimesse laterali come Obelix lanciava i menhir. L’aeroporto di Keflavik, lunedì sera, sembrava l’anticamera di una festa. Perché questo è il calcio in Islanda. Pensate che matti. Pensate che fortunati.

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