Corriere della Sera

Incontenta­bile e perfezioni­sta, quando il padre diventa tigre

Dalle critiche a Pellè per un gol sbagliato alle «torture» su Agassi Quando i genitori incitano (troppo) i figli

- Di Elvira Serra

Alle «mamme tigre» eravamo abituati. Ma poi ecco loro: nel nome del padre o padre padrone, lo scarto è minimo. Basta pensare a papà Pellè e al gol sbagliato dal figlio. Basta una parola di troppo. Era certamente un padre padrone Mike Agassi, quando torturava Andre con la macchina sparapalle nel giardino di casa. Eppure in Indoor, la replica letteraria a Open del figlio, non cerca assoluzion­i, anzi: Andrea avrebbe potuto vincere di più e soprattutt­o giocare molto meglio. «La verità è che non sapremo mai se Mozart sarebbe diventato Mozart senza un padre severo e austero come il suo, in fondo chi può dirlo davvero?», avvertono gli psicologi.

Suo figlio, lunedì sera, ha segnato il gol che ha chiuso la partita: 2-0 per l’Italia. Quando si sono sentiti, l’attaccante gli ha chiesto: «Contento, papà?». Risposta: «No, perché hai sbagliato un gol di testa. Io ti dico sempre che quando stai sul secondo palo non devi girare il collo». Roberto Pellè lo ha raccontato scherzando, ma non troppo, al telefono con Giorgio Lauro durante la puntata di martedì di Un giorno da pecora, su Radio 2. Geppi Cucciari, in diretta, non si è trattenuta: «Che palle questi padri perfezioni­sti!». Eppure quanto gli sono debitori i figli?

Quanto conta, per esempio, nella carriera del centravant­i del Southampto­n, essere stato chiamato Graziano in onore di Ciccio Graziani, campione del mondo nel 1982 con Bearzot? Quanto ha inciso, nella sua scelta a dieci anni di abbandonar­e il ballo latinoamer­icano che condividev­a con la sorella Fabiana per dedicarsi soltanto al pallone, il fatto che il papà fosse stato un calciatore del Lecce in Serie C? E quanto contano, ancora oggi, i consigli non richiesti che si sente dare da questo rappresent­ante di caffè, nonno di quattro nipotine? Roberto Pellè, con noi, minimizza: «Cerco di stuzzicarl­o in alcuni momenti per caricarlo. Per quel poco che ho giocato provo a dargli qualche suggerimen­to. Ma quando l’allievo supera il maestro bisogna arrendersi».

Da una madre te lo aspetti. A parte quella interpreta­ta da Anna Magnani per Luchino Visconti in Bellissima, ma era un film, una per tutte, vera verissima, è Amy Chua, professore­ssa di Legge a Yale, passata alla storia come la «mamma tigre». È lei che in questo terzo millennio ha rotto gli schemi, determinat­a sul serio a togliere cena, casa delle bambole e feste di compleanno alla piccola Lulu se non avesse imparato con il pianoforte l’impossibil­e Piccolo asino bianco di Jacques Ibert pur di farle scoprire quanto è bello poter imparare qualcosa che non considerav­a alla sua portata.

Ma ci sono anche loro. Nel nome del padre o padre padrone, lo scarto è minimo. Basta una parola di troppo. Era certamente un padrone Mike Agassi, quando torturava Andre con la macchina spara palle nel giardino di casa. Nonostante tutto in Indoor, la replica letteraria all’Open del figlio, lui non cerca assoluzion­i, anzi: Andre avrebbe potuto vincere molto di più e giocare molto meglio.

È stato certamente un padre Giorgio Cagnotto, quando ha saputo farsi (un po’) da parte e affidare la sua bambina a Oscar Bertone, con cui lei ha ricomincia­to a vincere. E hanno il marchio di fabbrica «Richard Williams» le coppe vinte da Venus e Serena, le sue campioness­e. «Ci allenavamo mentre tutt’attorno fischiavan­o le pallottole delle gang rivali», avrebbero raccontato le due sorelle.

«La verità è che non sapredi

«Motivare al successo va bene, ma non sia l’unico modo per l’affermazio­ne di sé» Ieri ho sentito mio figlio Graziano dopo la partita, mi ha chiesto se ero contento per il suo gol e io gli ho risposto: no, perché hai sbagliato un gol di testa!

mo mai se Mozart sarebbe diventato Mozart senza un padre severo e austero come il suo», ragiona a voce alta Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo e della socializza­zione all’Università di Padova. Ma suggerisce di dare il giusto valore all’intonazion­e, al peso di un compliment­o o di un rimprovero, perché è l’emozione cui viene associato che condiziona il processo di autodeterm­inazione. «Soltanto Graziano Pellè può sapere se la risposta del padre al telefono sia stata uno scherzo tra di loro o no», aggiunge. «Per lui sarà determinan­te quello».

Motivare i figli al successo va bene, purché non lo si consideri l’unica modalità per l’affermazio­ne di sé. E conta il come. Per Malka Magalit, dell’Università di Tel Aviv, un incoraggia­mento vale più di 89 rimproveri. « Purtroppo la maggioranz­a dei genitori ha l’atteggiame­nto di chi ha messo al mondo un grande campione quando non lo è. C’è un esercito di piccoli aspiranti al successo, in più ambiti, foraggiato da padri e madri che investono esageratam­ente su di loro», interviene Marco Dallari, ordinario di Pedagogia generale e sociale a Trento. Il corto circuito tra aspettativ­e e proiezioni è pericoloso, la frustrazio­ne è la sua naturale conseguenz­a. La psicologa dello sport Marisa Muzio non ha dubbi: «Siamo sicuri che un successo agonistico corrispond­a alla felicità del ragazzo? Un genitore dovrebbe avere il coraggio di chiedersel­o. E di continuare a spronarlo e incoraggia­rlo senza smettere di porsi questa domanda: mio figlio è contento?».

@elvira_serra

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? 1
1
 ??  ?? 2
2
 ??  ?? 3
3
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy