Tra i feriti del Pulse: «Perché noi?»
Il racconto dagli ospedali dei sopravvissuti alla strage nel locale gay di Orlando. Oggi arriva Obama
La «Grand Lobby David & Linda Hughes» del Regional Medical Center di Orlando è sorvegliata con inflessibile discrezione da tre poliziotti, una guardia privata e due giovani donne alla reception. I feriti del «Pulse» sono ricoverati al quarto piano della Torre Nord. Accessibili solo per le famiglie o gli amici sopravvissuti al fucile automatico di Omar Mateen, sabato scorso. Nell’ospedale sono rimaste 27 delle 53 persone colpite: sei, riferiscono i medici «sono in gravi condizioni»; 5 vengono «monitorate costantemente»; le altre 16 sono fuori pericolo, «stabili». L’altro ieri la direzione del Regional ha organizzato una conferenza stampa, a uso soprattutto dei network americani. Due giovani hanno accettato di ripercorrere le sequenze del massacro. Patience Carter, 20 anni, di Filadelfia, si è ritrovata sdraiata sul pavimento, con il killer che sparava su altri corpi riversi vicino a lei. Angel Santiago, 30 anni, invece, si era chiuso in un bagno. Le raffiche dell’Ar-15 trapassavano la porta: è stato ferito al ginocchio e al piede. Ora, invece, nell’ampio atrio c’è quiete. Una specie di risacca psicologica, dopo la ressa di reporter, l’altro giorno e in attesa della visita di Obama, programmata per domani (oggi per chi legge). In una poltroncina attende Thomas Williams: è un «quasi sacerdote» di Chicago, collabora con il Dipartimento della Giustizia di Washington e proviene dalla stessa chiesa frequentata dal presidente degli Stati Uniti, la Trinity Unity Church of Christ. Neanche a lui consentono di salire «per portare una parola di conforto» ai sopravvissuti del «Pulse». A mezzogiorno, invece, via libera per i «Comfort Dog», dodici golden retriever, uno più bello dell’altro, «che danno sollievo a chi soffre».
Arrivano alcuni familiari. Il «quasi pastore» Williams si avvicina, il suo approccio è morbido. Spiega che lui e il suo partner sono stati i primi gay a sposarsi nella Chiesa di Riverside a New York, si offre di portare richieste o messaggi al presidente. La famiglia Colon, marito, moglie e tre ragazze, è appena arrivata dalla Louisiana. «Dica al presidente che abbiamo bisogno di preghiere», risponde una delle figlie. È un attimo e Williams ha già chiamato a raccolta anche una giovane appena arrivata da Brooklyn: al quarto piano c’è pure sua cugina. Ci ritroviamo in un cerchio, mano nella mano. Credenti o non credenti: per una preghiera. Piangono tutti, adesso. I poliziotti osservano e fanno un passo indietro. La signora Colon racconta che sono arrivati dalla Louisiana, il nipote Luis Menendez, 38 anni è grave: da sabato non ha più ripreso conoscenza. Sul tavolino sono posati quattro enormi vassoi: insalata con le uova, riso condito, banane fritte. «Tutto questo ce l’ha dato la società per cui lavora Luis. Ci hanno accolto e ci hanno ospitato al Marriott». Luis è un dipendente di un celebre marchio « made in Italy». Si avvicina Francisco Pabon, 22 anni, impiegato contabile: quella notte lui è riuscito a fuggire da una porta laterale del club. Ma sette suoi amici sono morti, altri quattro sono qui al Medical Center. Li ha appena visti: «Ci siamo chiesti il perché di tutto questo. E come potrà cambiare ora la nostra vita a Orlando. Ma siamo ancora troppo turbati per rispondere. Per favore lasciateci un po’ di tempo».
Ci siamo chiesti come potrà cambiare ora la nostra vita a Orlando. Ma siamo ancora troppo turbati per rispondere. Lasciateci del tempo