Corriere della Sera

Stato-mafia Amato in aula «smentisce» Scotti e Martelli

- Di Giovanni Bianconi

«Mi dispiace costellare questa lunga testimonia­nza di tanti non ricordo, simbolicam­ente indici di reticenza, o di fare la parte dello smemorato di Collegno», si scusa Giuliano Amato davanti alla Corte d’assise di Palermo in trasferta a Roma. «Però ricordo nitidament­e che quando Scotti si dimise da ministro degli Esteri la cosa mi colse alla sprovvista»; quindi (a sua memoria) non glielo aveva detto prima. Alla domanda successiva è più deciso: «Scotti non mi ha mai detto che se non rimaneva all’Interno si sarebbe interrotta la continuità nella lotta alla mafia. Evidenteme­nte i nostri ricordi divergono...». A 24 anni di distanza, l’ex presidente del Consiglio oggi giudice costituzio­nale torna a testimonia­re sulla formazione del suo governo, fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. E ribadisce che la lista dei ministri democristi­ani gli fu consegnata dall’allora segretario della Dc Forlani: lì era scritto che Enzo Scotti doveva passare dall’Interno agli Esteri e Nicola Mancino sarebbe andato al Viminale. «A me andava bene così». È uno dei passaggi chiave della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, per mandare all’Interno un responsabi­le più malleabile di quanto sarebbe stato Scotti (autore di ripetuti allarmi antimafia e, insieme al ministro della Giustizia Martelli, del decreto che introducev­a il «carcere duro» per i boss). Ma per Amato — come per altri testimoni al processo, da Forlani a De Mita — fu un avvicendam­ento dettato da dinamiche interne alla Dc, e a lui non risultano altre motivazion­i. In alcune interviste Scotti denunciò il rischio di indebolire la lotta alla mafia se lui non fosse rimasto al Viminale, ma Amato non le ricorda: «Per il rapporto che avevamo, immagino che se avesse pensato queste cose avrebbe dovuto dirmele; non lo fece, e quando lo nominai agli Esteri non mi manifestò alcun rammarico». Un mese dopo lo stesso Scotti lasciò la Farnesina, ma per Amato lo fece per l’incompatib­ilità stabilita in quel frangente dalla Dc tra incarico ministeria­le e seggio da deputato (con conseguent­e perdita dell’immunità parlamenta­re): storie della prima Repubblica, difficili da ricostruir­e con esattezza anche in un’aula di giustizia. «Non ricordo nemmeno che, come sostiene Martelli, Craxi mi disse di non volerlo più alla Giustizia, e che io in seguito lo tranquilli­zzai sulla riconferma. Ma non posso dire che non sia vero».

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