CHE CI SIA O NO LA BREXIT LA PARTITA DELL’ITALIA È APERTA
Roma deve continuare a chiedere più flessibilità e autonomia nazionale e fare riforme strutturali
Fra una settimana si terrà in Gran Bretagna il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea o l’uscita dalla stessa: «Remain» o «Exit». Le istituzioni dell’Unione, i governi dei Paesi membri (e non solo questi), le istituzioni finanziarie pubbliche e private, le grandi imprese sono da tempo in agitazione: circola persino una leggenda metropolitana secondo la quale i numerosi funzionari britannici dell’Unione si appresterebbero a chiedere la nazionalità di Paesi che non sono a rischio di uscita.
Al momento in cui scrivo i sondaggi non danno risposte chiare. E le conseguenze dei due possibili esiti sono difficilmente prevedibili. Più rassicuranti quelle del Remain, almeno nel breve periodo perché nel lungo tutto si fa incerto. Più preoccupanti quelle dell’Exit. L’onda d’urto non sarà facile da smorzare in un mondo finanziarizzato e interconnesso, anche se credo poco ai calcoli che presumono di quantificare le perdite in termini di crescita che conseguirebbero alla Brexit: nel breve-medio periodo saranno probabilmente serie per la Gran Bretagna; per l’Europa e nel lungo periodo è difficile dire.
Mi pongo solo una domanda. A seconda dell’esito del referendum, dovrebbe il nostro governo modificare la posizione che ha assunto nei confronti dell’Unione e degli Stati che maggiormente influenzano le decisioni europee, la Germania in primis? (Riassumo questa posizione in tre punti: (a) ottenere la massima flessibilità e autonomia nazionale di politica economica compatibile con i trattati e gli accordi che l’Italia ha sottoscritto. Si tratta di una richiesta accettabile se basata su (b) riforme strutturali che aumentino la competitività dell’economia e l’efficienza delle istituzioni pubbliche in tempi prevedibili: è solo se l’Italia si avvicinerà agli standard dei Paesi più forti che essa potrà reclamare un maggior peso nelle decisioni europee. (c) Insistere su politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che mantengano la rotta dell’«ever closer Union», di un’Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori). La risposta alla domanda di più sopra è un No convinto: la posizione italiana dev’essere mantenuta, quale che sia il risultato del referendum britannico. Anzi, dev’essere rafforzata: alle parole di riforma interna — il punto (b) — devono accompagnarsi fatti di riforma e conseguenze benefiche in tempi non biblici, che attenuino lo scetticismo dei Paesi della Ue e degli stessi cittadini italiani. Quanto al punto (c) — diverse politiche dell’Unione, senza escludere riforme degli stessi trattati — vedremo subito appresso.
Mantenere ed anzi rafforzare la posizione italiana presenterebbe però prospettive e difficoltà assai diverse a seconda dei due esiti del referendum britannico. Nel caso del «Remain» la situazione non sarebbe molto diversa da quella attuale, solo un po’ peggio. Come
Nel caso del «Remain» il peso frenante di Londra resterebbe ancora intatto
ci ha ricordato Paul De Grauwe (Lavoce.info, 26 febbraio), il potere frenante della Gran Bretagna nei confronti di una gestione più comunitaria dell’Unione non si annullerebbe certo per effetto di una risicata maggioranza di «Remain»: di riforma dei Trattati si cesserebbe di parlare e l’Unione resterebbe altrettanto o più intergovernativa di adesso. Diverse sono le prospettive e le difficoltà in caso di Brexit. Ammesso che le turbolenze economiche e politiche si limitino al breve periodo e non generino effetti domino, si potrebbe pensare che l’assenza della grande frenatrice consenta ai Paesi restanti, soprattutto quelli dell’Eurogruppo, decisi passi in avanti sulla strada di un’Unione sempre più stretta, mediante significative cessioni di sovranità ad un Parlamento e ad una Commissione rafforzati in materie sensibili come la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, la politica estera e la difesa, le politiche sociali. Anche tra Paesi che a parole sostengono
In caso di «Leave» c’è da sperare che non si generi un dannoso effetto domino
una maggiore integrazione e si dicono disposti a forti cessioni di sovranità nazionale, anche tra Germania e Francia — necessariamente il cuore di questa Ue rafforzata — le differenze sono molto forti ed emergerebbero chiaramente una volta che il comodo alibi della Gran Bretagna non fosse più utilizzabile. Una partita da giocare, certo, e molto più interessante di quella che conseguirebbe a un risicato « Remain»: ma il sogno di un’Europa unita, che con una voce sola si confronta in nome dei suoi valori e interessi con le grandi potenze mondiali, temo che rimarrà ancora tale per molto tempo.
Concludendo. Dei tre punti in cui più sopra ho riassunto la posizione del nostro governo, nel caso che la Gran Bretagna resti nell’Unione risulterebbe indebolito il terzo, quello della riforma dell’Unione in direzione più comunitaria. Gli altri due (la domanda di maggiore flessibilità e la necessità di riforme strutturali) risultano intatti, anzi rafforzati. Restare nell’Unione, per un Paese con il nostro debito pubblico e le nostre debolezze strutturali, è comunque meglio che esserne fuori, in balia dei mercati finanziari… e delle nostre classi politiche.