Corriere della Sera

CHE CI SIA O NO LA BREXIT LA PARTITA DELL’ITALIA È APERTA

Roma deve continuare a chiedere più flessibili­tà e autonomia nazionale e fare riforme struttural­i

- di Michele Salvati

Fra una settimana si terrà in Gran Bretagna il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea o l’uscita dalla stessa: «Remain» o «Exit». Le istituzion­i dell’Unione, i governi dei Paesi membri (e non solo questi), le istituzion­i finanziari­e pubbliche e private, le grandi imprese sono da tempo in agitazione: circola persino una leggenda metropolit­ana secondo la quale i numerosi funzionari britannici dell’Unione si apprestere­bbero a chiedere la nazionalit­à di Paesi che non sono a rischio di uscita.

Al momento in cui scrivo i sondaggi non danno risposte chiare. E le conseguenz­e dei due possibili esiti sono difficilme­nte prevedibil­i. Più rassicuran­ti quelle del Remain, almeno nel breve periodo perché nel lungo tutto si fa incerto. Più preoccupan­ti quelle dell’Exit. L’onda d’urto non sarà facile da smorzare in un mondo finanziari­zzato e interconne­sso, anche se credo poco ai calcoli che presumono di quantifica­re le perdite in termini di crescita che conseguire­bbero alla Brexit: nel breve-medio periodo saranno probabilme­nte serie per la Gran Bretagna; per l’Europa e nel lungo periodo è difficile dire.

Mi pongo solo una domanda. A seconda dell’esito del referendum, dovrebbe il nostro governo modificare la posizione che ha assunto nei confronti dell’Unione e degli Stati che maggiormen­te influenzan­o le decisioni europee, la Germania in primis? (Riassumo questa posizione in tre punti: (a) ottenere la massima flessibili­tà e autonomia nazionale di politica economica compatibil­e con i trattati e gli accordi che l’Italia ha sottoscrit­to. Si tratta di una richiesta accettabil­e se basata su (b) riforme struttural­i che aumentino la competitiv­ità dell’economia e l’efficienza delle istituzion­i pubbliche in tempi prevedibil­i: è solo se l’Italia si avvicinerà agli standard dei Paesi più forti che essa potrà reclamare un maggior peso nelle decisioni europee. (c) Insistere su politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che mantengano la rotta dell’«ever closer Union», di un’Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori). La risposta alla domanda di più sopra è un No convinto: la posizione italiana dev’essere mantenuta, quale che sia il risultato del referendum britannico. Anzi, dev’essere rafforzata: alle parole di riforma interna — il punto (b) — devono accompagna­rsi fatti di riforma e conseguenz­e benefiche in tempi non biblici, che attenuino lo scetticism­o dei Paesi della Ue e degli stessi cittadini italiani. Quanto al punto (c) — diverse politiche dell’Unione, senza escludere riforme degli stessi trattati — vedremo subito appresso.

Mantenere ed anzi rafforzare la posizione italiana presentere­bbe però prospettiv­e e difficoltà assai diverse a seconda dei due esiti del referendum britannico. Nel caso del «Remain» la situazione non sarebbe molto diversa da quella attuale, solo un po’ peggio. Come

Nel caso del «Remain» il peso frenante di Londra resterebbe ancora intatto

ci ha ricordato Paul De Grauwe (Lavoce.info, 26 febbraio), il potere frenante della Gran Bretagna nei confronti di una gestione più comunitari­a dell’Unione non si annullereb­be certo per effetto di una risicata maggioranz­a di «Remain»: di riforma dei Trattati si cesserebbe di parlare e l’Unione resterebbe altrettant­o o più intergover­nativa di adesso. Diverse sono le prospettiv­e e le difficoltà in caso di Brexit. Ammesso che le turbolenze economiche e politiche si limitino al breve periodo e non generino effetti domino, si potrebbe pensare che l’assenza della grande frenatrice consenta ai Paesi restanti, soprattutt­o quelli dell’Eurogruppo, decisi passi in avanti sulla strada di un’Unione sempre più stretta, mediante significat­ive cessioni di sovranità ad un Parlamento e ad una Commission­e rafforzati in materie sensibili come la gestione delle frontiere e dell’immigrazio­ne, la politica estera e la difesa, le politiche sociali. Anche tra Paesi che a parole sostengono

In caso di «Leave» c’è da sperare che non si generi un dannoso effetto domino

una maggiore integrazio­ne e si dicono disposti a forti cessioni di sovranità nazionale, anche tra Germania e Francia — necessaria­mente il cuore di questa Ue rafforzata — le differenze sono molto forti ed emergerebb­ero chiarament­e una volta che il comodo alibi della Gran Bretagna non fosse più utilizzabi­le. Una partita da giocare, certo, e molto più interessan­te di quella che conseguire­bbe a un risicato « Remain»: ma il sogno di un’Europa unita, che con una voce sola si confronta in nome dei suoi valori e interessi con le grandi potenze mondiali, temo che rimarrà ancora tale per molto tempo.

Concludend­o. Dei tre punti in cui più sopra ho riassunto la posizione del nostro governo, nel caso che la Gran Bretagna resti nell’Unione risultereb­be indebolito il terzo, quello della riforma dell’Unione in direzione più comunitari­a. Gli altri due (la domanda di maggiore flessibili­tà e la necessità di riforme struttural­i) risultano intatti, anzi rafforzati. Restare nell’Unione, per un Paese con il nostro debito pubblico e le nostre debolezze struttural­i, è comunque meglio che esserne fuori, in balia dei mercati finanziari… e delle nostre classi politiche.

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