Addio a Giuseppe Spagnulo virtuoso della terra e del ferro
Giuseppe Spagnulo e la terra. Perché comincia così, a Grottaglie dove nasce nel 1936, nell’officina di famiglia dove vede costruire «enormi oggetti per contenere liquidi, il vino, l’olio, erano grandi, immensi vasi creati al tornio, ed erano utili tanto da contenere quattro quintali di liquido. Mi è rimasto questo mito di un’impresa». Dimensione epica ma insieme il senso dello spazio e dell’architettura. Poi Spagnulo, scomparso ieri, passa all’Istituto per la ceramica di Faenza dove dialoga con due scultori, Nanni Valentini e Carlo Zauli, che sanno «scrivere» con la terra. Poi si iscrive all’Accademia di Brera, lavora per Lucio Fontana e Arnaldo Pomodoro: «Essere a Milano voleva dire allontanarmi dalla condizione del Sud, liberarmi dal dibattito tra figurativo e astratto che in quegli anni si connotava centrale anche in scultura». Subito dopo viene l’impegno politico e alcune grandi opere come Black Panther (19681969), in acciaio corten, sculture nate per lo spazio urbano come quelle esposte alla Biennale del 1972, che fanno di Spagnulo un protagonista. Quindi le sculture diventano lunga durata, materia corrosa di un territorio antico, e sono i Paesaggi (1975) blocchi distesi al suolo di argilla e cemento, di sapore concettuale. L’artista sceglie ora altri materiali, lingotti di ferro che forgia, taglia, spezza, andando oltre gli schemi della Minimal Art e creando i segni inconfondibili di una nuova ricerca, durata fino alla fine. Sono imponenti colonne di terracotta ( Turris, 1991), o ancora di acciaio ( Omaggio a Brancusi, 1992) che segnano lo spazio in tante rassegne fuori e dentro i nostri confini. Scompare dunque uno dei grandi della scultura europea che fino alla fine ha voluto mantenere la dimensione epica della scultura, come gli antichi vasi dell’officina a Grottaglie.