Il finale di «Gomorra 2» tra Edipo, Shakespeare e la Bibbia

Èfinita la seconda stagione di «Gomorra», con un finale che più drammatico non si può. Facciamo un esperimento. Proviamo a delocalizzare «Gomorra» e ambientarla in un posto a piacere, lontano da Scampia. Proviamo a considerare il duro e oscuro dialetto con cui si esprimono gli attori come una lingua immaginaria (in letteratura ne esistono tantissime, da Aristofane a Dario Fo, da Rabelais a Tolkien), esattamente come se fosse l’alto valyriano con cui comunicano i Targaryen in «Game of Thrones». Proviamo a liberare «Gomorra» dai commenti dei magistrati e dei sociologi di pronta beva… Ebbene, cosa resta? Resta qualcosa che abbiamo già letto nella Bibbia, nelle tragedie greche, in Shakespeare: «Là si odia! Là si ama, si uccide il nemico, si maledice ai posteri per tutte le generazioni; là si pecca», dice Kierkegaard. E il peccato più atroce è la lotta parentale, tra padre e figli. In Edipo, figlicidio e parricidio si corrispondono drammaticamente come due facce della stessa medaglia.

In «Gomorra 2» il tema centrale non sono il controllo del territorio, lo spaccio della droga, l’alleanza fra cosche. È corredo. Il tema centrale è il legame di sangue, quello vero, quello sparso. Genny Savastano prima salva il padre Pietro portandolo in spalla come Enea con Anchise, ma poi arma la mano di chi lo deve far fuori. Anche sua moglie Azzurra tradisce il padre, rinchiuso in carcere.

Ciro Di Marzio uccide con le sue mani la moglie ma deve assistere alla devastante uccisione della figlia. Scianel cambia alleanze per salvare il figlio Lelluccio. La scena finale è la più beffarda: mentre muore Pietro Savastano per mano di Ciro, armato da Genny, Azzurra dà alla luce un maschietto cui viene imposto il nome di Pietro. I figli uccidono e uccideranno i padri… Questo anche per dire che con «Gomorra la serie», il «savianesimo» (rubo un’espressione a Sebastiano Vassalli) non c’entra nulla. È solo un marchio d’esportazione.