Corriere della Sera

Crescita frenata da 10 debolezze

Quali sono i motivi per cui non miglioriam­o nella classifica dei Paesi dove è facile fare impresa Studio di Confartigi­anato

- Di Sergio Rizzo

Per il Fondo monetario internazio­nale l’elenco delle riforme avviate da Renzi è impression­ante. Ma lo è pure la lista delle debolezze che l’ economia ha rispetto al resto dell’Ue.

«Impressive». Proprio così il Fondo monetario internazio­nale ha definito l’elenco delle riforme messe in cantiere da Matteo Renzi: «impression­ante». Nessun altro governo italiano in tempi recenti è stato destinatar­io di una tale apertura di credito da parte di Washington. Anche se per ora è tutto molto limitato, appunto, alle impression­i. Per esempio, al pari della lista delle riforme è impression­ante quella delle palle al piede che la nostra economia ha ancora rispetto al resto dell’Unione Europea. Con o senza la Gran Bretagna. Entrando a Palazzo Chigi all’inizio del 2014 Renzi aveva promesso una scalata vertiginos­a alla classifica dei Paesi dove è più facile fare impresa, che collocava l’Italia in un’avvilente casella numero 65: il proposito era di guadagnare 50 posizioni entro il 2018. Per ora l’Italia ne ha recuperate 20. Nella graduatori­a di Doing business siamo saliti a 45. Ancora lontanissi­mi da Spagna (33), Francia (27) e Germania (15). Per non parlare della Gran Bretagna (sesta assoluta) che ci straccia letteralme­nte, rifilandoc­i un distacco di 39 posizioni. Recuperare ancora sarà possibile solo liberandos­i di alcune di quelle zavorre. La più gravosa delle quali, secondo la Banca Mondiale, è il livello di tassazione delle imprese: per questa voce l’Italia ha risalito appena una posizione, passando dalla 138 alla 137. Che su un totale di 189 Paesi non può essere definita una performanc­e entusiasma­nte.

Nella relazione che verrà presentata all’assemblea della Confartigi­anato di domani, l’ufficio studi argomenta che la pressione complessiv­a sulle imprese di minore dimensione supera di 16,7 punti la media dell’Ue. Toccherebb­e infatti il 64,8% del risultato operativo lordo contro il 48,1% europeo. E non è che una delle dieci palle al piede che Confartigi­anato indica come il freno più consistent­e alla crescita. C’è il cosiddetto divario digitale, per cui gli utenti che dialogano Giorgio Merletti, 65 anni, è presidente della Confartigi­anato online con la pubblica amministra­zione sono ancora il 20,3% a fronte del 36,2 medio continenta­le. La lunghezza dei procedimen­ti civili, con 1.120 giorni per risolvere una disputa commercial­e, ovvero oltre il doppio dei 543 medi europei. I tempi di pagamento della pubblica amministra­zione, 131 giorni a fronte di 51: un ritardo che si riflette anche sui pagamenti fra le stesse imprese, per cui servono 80 giorni anziché 39. Quindi il costo dell’energia elettrica, più alto del 29,8%. L’inadeguate­zza delle infrastrut­ture, indicata come un serio problema dall’82% degli imprendito­ri italiani, contro il 46% degli europei. La corruzione, ritenuta un pericolo mortale dal 60% degli intervista­ti in uno speciale sondaggio: 20 punti in più del valore europeo. E poi la burocrazia, considerat­a un peso insormonta­bile dall’86% degli operatori economici, con la magra consolazio­ne che ci sono più scontenti in Grecia (95) e addirittur­a in Francia (89). «La battaglia per semplifica­re gli adempiment­i amministra­tivi — ironizza il presidente della Confartigi­anato Giorgio Merletti — non si vince insistendo a fare norme di semplifica­zione che poi rimangono sulla carta. Bisogna sempliceme­nte semplifica­re la semplifica­zione. Attuare leggi che esistono già, eliminare quelle inutili, superare la frammentaz­ione di competenze e fidarsi un po’ di più dei pericolosi imprendito­ri». Sembra facile. All’atto pratico, però, scopriamo che una legge come quella sui fabbisogni standard degli enti locali, che avrebbe dovuto rendere più equa la distribuzi­one delle risorse (già magre) fra i Comuni rendendoli anche più efficienti è stata approvata sette anni fa senza essere stata applicata.

E questo nonostante la questione dei servizi pubblici sia una di quelle pesanti palle al piede del Paese. Basta dire che la loro qualità soddisfa in Italia appena il 39% di cittadini, 22 in meno rispetto alla media continenta­le (61%). Le ragioni? Innanzitut­to le tariffe continuame­nte in crescita: nei cinque anni conclusi ad aprile 2016 l’aumento dei prezzi italiani è stato del 17,5%, 13 punti più dell’inflazione, e nonostante un calo del 5,5% del potere d’acquisto delle famiglie. Il rapporto della Confartigi­anato segnala che per i soli servizi non energetici (acqua, rifiuti e trasporti) si è registrato un rincaro del 22%, quasi doppio rispetto all’aumento registrato nell’eurozona. Il record è per le tariffe dei servizi idrici, salite del 34,8%, 21,3 punti più dell’area della moneta unica. Il fatto è che a dinamiche così sostenute dei prezzi, peraltro in stretta relazione con il fatto che quei servizi sono erogati da imprese per il 95% pubbliche e non particolar­mente efficienti, corrispond­ono spesso prestazion­i assai scadenti. Prova ne sia il fatto che fra le 83 città europee esaminate in una indagine della Commission­e europea dedicata alla qualità della vita connessa ai servizi pubblici locali, le ultime tre posizioni sono occupate da Palermo, Roma e Napoli. Con la seconda che ha un poco invidiabil­e primato nella percezione degli intervista­ti. Quello di capitale più sporca del continente.

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