La stagione dell’incertezza
Chiedono la grande coalizione la Confindustria spagnola, la Chiesa, l’Europa, la Germania
L’autodistruzione dell’Europa avanza inesorabile, da Londra verso Madrid. Brexit produce un «richiamo all’ordine», ma non basta: la Spagna resta senza governo.
Lo choc del referendum britannico ha influito sulle urne spagnole e ha rafforzato i due partiti tradizionali. I popolari migliorano decisamente rispetto ai sondaggi, così come i socialisti, che evitano il sorpasso di Podemos: annunciato alla vigilia, confermato dagli exit poll, smentito dai voti quelli veri. Ma nessun partito può festeggiare.
Dopo sei mesi di inutili trattative, le nuove elezioni — tra le meno partecipate nella storia della democrazia — non hanno sciolto il rebus che attende una soluzione dal Natale scorso. In un altro Paese apparirebbe inevitabile la grande coalizione guidata dai popolari, che però non fa parte della cultura politica di Madrid: troppo grande la distanza anche storica tra un partito nato dalle ceneri del franchismo e il partito socialista operaio spagnolo. Ma anche un governo «pueblo unido» tra Psoe e Podemos rappresenta una forzatura, visti il risultato delle elezioni e il rapporto pessimo tra le due forze della sinistra.
Il Pp del premier uscente — ma senza poteri — Mariano Rajoy si conferma il primo partito; resta però lontano dalla maggioranza necessaria a governare. E i voti che ha recuperato li ha presi in parte al suo alleato naturale, i centristi di Ciudadanos.
I socialisti sono andati un po’ meno peggio del previsto, ma confermano la crisi della sinistra riformista in tutta Europa: irrilevanti in Gran Bretagna dove neppure il sacrificio di Jo Cox ha scosso la base laburista, docili vassalli della Merkel in Germania, messi malissimo in Francia, messi maluccio pure in Italia. Il Psoe è il partito fondativo della democrazia spagnola, è stato al potere per ventidue anni prima con González e poi con Zapatero, che ora non conta più nulla. González invece nel partito conta ancora molto; ed è contrarissimo all’ipotesi di un governo con Unidos Podemos, il cartello elettorale tra i comunisti e il movimento di Pablo Iglesias, che esce ridimensionato dalle urne.
In teoria è possibile un esecutivo delle sinistre sconfitte, magari con l’appoggio di catalani e baschi; ma le differenze culturali tra i socialisti e Podemos sono enormi. Iglesias potrebbe anche cedere sulla richiesta di un referendum per l’indipendenza della Catalozione gna; in ogni caso il feudo andaluso — governato dalla donna forte del Psoe, Susana Diaz — premerà d’intesa con González per un accordo con i popolari, o almeno per un patto di non belligeranza.
Chiedono la grande coali- la Confindustria spagnola, la Chiesa, l’Europa, la Merkel: la Germania controlla il debito pubblico spagnolo, non a caso ha consentito il salvataggio delle banche e tollera un rapporto deficit-Pil al 5%, il doppio di quello italiano. Una vera alleanza di governo tra destra e sinistra resta impraticabile; ma i socialisti potrebbero astenersi per far nascere un governo dei popolari, chiedendo in cambio la testa di Rajoy. Che però guida il partito più votato: un partito leaderista, che ha avuto tre soli capi in tutta la sua storia; dopo il fondatore Fraga Iribarne, già ministro di Franco, l’ex premier Aznar, che con Rajoy ha rotto.
Stamattina ricominciano le trattative, agevolate dal nuovo re Felipe. Questa volta un accordo lo si dovrà trovare, e in tempi ragionevoli. Ma la stagione dell’incertezza e dell’instabilità in Europa è appena cominciata.
Cultura politica La grande coalizione guidata dai popolari non fa parte della cultura politica spagnola