IL NOSTRO RUOLO IN QUESTA EUROPA
Dopo Brexit / 1 Dobbiamo continuare a combattere per margini di flessibilità nazionali, ora anche al fine di contrastare le eventuali ricadute negative dell’uscita di Londra Internamente, servono riforme per renderci più competitivi
Alcuni giorni fa, il 16 giugno, avevo scritto un commento in cui discutevo delle possibili conseguenze del Leave o del Remain nel referendum britannico sulle politiche — economiche ed europee — del nostro governo. Avendo prevalso, seppur di poco, i Leave mi concentro sulle conseguenze della Brexit.
In quel commento avevo riassunto i principi delle politiche italiane relative all’Unione Europea — non solo del governo attuale, che ne ha mutato solo i toni e l’efficacia, ma anche dei precedenti — in tre costanti: la richiesta della maggiore flessibilità possibile per le politiche economiche nazionali, nell’ambito dei trattati europei che abbiamo sottoscritto; il massimo sforzo politicamente sostenibile al fine di attuare politiche che attenuino i vincoli strutturali (debito, produttività, efficienza delle istituzioni pubbliche) che frenano la crescita del nostro Paese; l’insistenza per politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che ci mantengano sulla rotta dell’«ever closer Union», di una Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori.
È troppo presto, e il trauma è troppo straordinario, per avanzare stime affidabili sulle conseguenze politiche ed economiche che esso provocherà: per ora si può solo assumere che saranno serie e negative, sia nel breve che nel medio periodo, per il Regno Unito; meno gravi, ma sempre negative, per il resto dell’Unione, per l’eurozona e per noi. Sulla base di questa assunzione — incerta, generica, provvisoria, ma l’unica oggi possibile — riusciamo ad avanzare previsioni su come l’Unione senza Gran Bretagna andrà evolvendo ed esprimere un’opinione su come, all’interno di essa, il nostro Paese dovrebbe comportarsi?
A mio modo di vedere le prime due costanti della nostra politica non richiedono alcuna revisione. Ancora di più dovremmo combattere per margini di flessibilità nazionali, ora anche al fine di contrastare le eventuali conseguenze macroeconomiche negative della Brexit; e ancora di più dovremmo impegnarci per attuare politiche strutturali incisive, che accrescano il livello di competitività del nostro sistema produttivo, di solidità di quello finanziario, nonché i livelli di efficienza delle nostre istituzioni pubbliche.
Europa o non Europa e, all’interno dell’Europa, Brexit o non Brexit, queste sono politiche che dovremmo comunque perseguire per ottenere un po’ di respiro nel breve periodo e qualche possibilità di crescita nel lungo, non esclusivamente basata su una svalutazione dei salari. Il problema che si apre con la Brexit è quello della terza costante e due domande sono d’obbligo: l’eliminazione della «grande frenatrice» dal ristretto circolo dei grandi decisori europei indurrà i restanti a marciare più speditamente in direzione di una «ever closer Union»? E il nostro Paese sarà tra quelli che avranno una sufficiente autorevolezza e vorranno utilizzarla per raggiungere questo obiettivo?
Coloro i quali credono che, eliminata la Gran Bretagna, la strada verso un’Europa meno intergovernativa e più comunitaria — costituita da un gruppo di stati dell’eurozona disposti a significative cessioni di sovranità in materie come la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, la politica estera e la difesa, alcuni principi di
base in tema di welfare, una politica macroeconomica veramente condivisa — sia una strada in discesa, temo che si illudano di grosso. È invece una strada difficilissima e l’opposizione del Regno Unito è stata spesso usata come pretesto per nascondere la scarsa volontà di percorrerla, anche da parte di Paesi che, a parole, si dicono favorevoli al metodo comunitario e all’«ever closer Union». Anche da parte di Francia e Germania, che di questa Unione più stretta dovrebbero essere la coppia traente.
E vengo allora alla seconda domanda: e l’Italia? Si aggiungerà con la Spagna ad una (eventuale) coppia traente? Tentare una risposta ci avvicina al terreno molle della fantapolitica, ma un’osservazione per ora può bastare: molto dipende dal governo in carica nel periodo in cui occorrerà prendere decisioni importanti. Un governo solido, guidato da una personalità convinta del nostro destino europeo, potrebbe avere l’autorevolezza e sostenere l’impegno necessari a cooperare attivamente in direzione di una «ever closer Union».
Nell’Europa della Brexit e di possibili effetti domino, un’Europa in cui, a partire dalle elezioni spagnole, procedendo col referendum costituzionale italiano dell’ottobre e poi, nel 2017, con le elezioni presidenziali francesi e quelle olandesi e tedesche — tutte prove elettorali che i partiti filoeuropei affrontano con grandi incertezze e difficoltà — …in questa Europa parlare di grandi riforme dell’Unione può sembrare, più che azzardato, privo di ogni aggancio con la realtà. Ma la partita, per quanto difficile, appartiene a quelle che possono essere giocate e il male della Brexit potrebbe non essere venuto soltanto per nuocere.
Illusioni Si sbagliano quanti pensano che ora senza il freno della Gran Bretagna sarà in discesa la strada per un’Unione più intergovernativa e comunitaria