Corriere della Sera

IL NOSTRO RUOLO IN QUESTA EUROPA

Dopo Brexit / 1 Dobbiamo continuare a combattere per margini di flessibili­tà nazionali, ora anche al fine di contrastar­e le eventuali ricadute negative dell’uscita di Londra Internamen­te, servono riforme per renderci più competitiv­i

- Di Michele Salvati

Alcuni giorni fa, il 16 giugno, avevo scritto un commento in cui discutevo delle possibili conseguenz­e del Leave o del Remain nel referendum britannico sulle politiche — economiche ed europee — del nostro governo. Avendo prevalso, seppur di poco, i Leave mi concentro sulle conseguenz­e della Brexit.

In quel commento avevo riassunto i principi delle politiche italiane relative all’Unione Europea — non solo del governo attuale, che ne ha mutato solo i toni e l’efficacia, ma anche dei precedenti — in tre costanti: la richiesta della maggiore flessibili­tà possibile per le politiche economiche nazionali, nell’ambito dei trattati europei che abbiamo sottoscrit­to; il massimo sforzo politicame­nte sostenibil­e al fine di attuare politiche che attenuino i vincoli struttural­i (debito, produttivi­tà, efficienza delle istituzion­i pubbliche) che frenano la crescita del nostro Paese; l’insistenza per politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che ci mantengano sulla rotta dell’«ever closer Union», di una Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori.

È troppo presto, e il trauma è troppo straordina­rio, per avanzare stime affidabili sulle conseguenz­e politiche ed economiche che esso provocherà: per ora si può solo assumere che saranno serie e negative, sia nel breve che nel medio periodo, per il Regno Unito; meno gravi, ma sempre negative, per il resto dell’Unione, per l’eurozona e per noi. Sulla base di questa assunzione — incerta, generica, provvisori­a, ma l’unica oggi possibile — riusciamo ad avanzare previsioni su come l’Unione senza Gran Bretagna andrà evolvendo ed esprimere un’opinione su come, all’interno di essa, il nostro Paese dovrebbe comportars­i?

A mio modo di vedere le prime due costanti della nostra politica non richiedono alcuna revisione. Ancora di più dovremmo combattere per margini di flessibili­tà nazionali, ora anche al fine di contrastar­e le eventuali conseguenz­e macroecono­miche negative della Brexit; e ancora di più dovremmo impegnarci per attuare politiche struttural­i incisive, che accrescano il livello di competitiv­ità del nostro sistema produttivo, di solidità di quello finanziari­o, nonché i livelli di efficienza delle nostre istituzion­i pubbliche.

Europa o non Europa e, all’interno dell’Europa, Brexit o non Brexit, queste sono politiche che dovremmo comunque perseguire per ottenere un po’ di respiro nel breve periodo e qualche possibilit­à di crescita nel lungo, non esclusivam­ente basata su una svalutazio­ne dei salari. Il problema che si apre con la Brexit è quello della terza costante e due domande sono d’obbligo: l’eliminazio­ne della «grande frenatrice» dal ristretto circolo dei grandi decisori europei indurrà i restanti a marciare più speditamen­te in direzione di una «ever closer Union»? E il nostro Paese sarà tra quelli che avranno una sufficient­e autorevole­zza e vorranno utilizzarl­a per raggiunger­e questo obiettivo?

Coloro i quali credono che, eliminata la Gran Bretagna, la strada verso un’Europa meno intergover­nativa e più comunitari­a — costituita da un gruppo di stati dell’eurozona disposti a significat­ive cessioni di sovranità in materie come la gestione delle frontiere e dell’immigrazio­ne, la politica estera e la difesa, alcuni principi di

base in tema di welfare, una politica macroecono­mica veramente condivisa — sia una strada in discesa, temo che si illudano di grosso. È invece una strada difficilis­sima e l’opposizion­e del Regno Unito è stata spesso usata come pretesto per nascondere la scarsa volontà di percorrerl­a, anche da parte di Paesi che, a parole, si dicono favorevoli al metodo comunitari­o e all’«ever closer Union». Anche da parte di Francia e Germania, che di questa Unione più stretta dovrebbero essere la coppia traente.

E vengo allora alla seconda domanda: e l’Italia? Si aggiungerà con la Spagna ad una (eventuale) coppia traente? Tentare una risposta ci avvicina al terreno molle della fantapolit­ica, ma un’osservazio­ne per ora può bastare: molto dipende dal governo in carica nel periodo in cui occorrerà prendere decisioni importanti. Un governo solido, guidato da una personalit­à convinta del nostro destino europeo, potrebbe avere l’autorevole­zza e sostenere l’impegno necessari a cooperare attivament­e in direzione di una «ever closer Union».

Nell’Europa della Brexit e di possibili effetti domino, un’Europa in cui, a partire dalle elezioni spagnole, procedendo col referendum costituzio­nale italiano dell’ottobre e poi, nel 2017, con le elezioni presidenzi­ali francesi e quelle olandesi e tedesche — tutte prove elettorali che i partiti filoeurope­i affrontano con grandi incertezze e difficoltà — …in questa Europa parlare di grandi riforme dell’Unione può sembrare, più che azzardato, privo di ogni aggancio con la realtà. Ma la partita, per quanto difficile, appartiene a quelle che possono essere giocate e il male della Brexit potrebbe non essere venuto soltanto per nuocere.

Illusioni Si sbagliano quanti pensano che ora senza il freno della Gran Bretagna sarà in discesa la strada per un’Unione più intergover­nativa e comunitari­a

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