LA LEZIONE DEL PAPA SUL GENOCIDIO ARMENO
Si è chinato davanti alla fiamma eterna del memoriale, papa Francesco, e ha deposto una rosa bianca e una gialla. Più tardi, nello stesso giorno di sabato, davanti ai cinquantamila della piazza della Repubblica di Yerevan, il Pontefice ha commemorato il Metz Yeghérn, il «Grande Male» armeno del 1915. Dagli altoparlanti della piazza si è diffusa la parola chiave: genocidio. Così si era già espresso Francesco, in San Pietro, nell’aprile 2015, in occasione del centenario, e venerdì, nel discorso al Palazzo presidenziale. Senza infingimenti. Senza paura. Genocidio. La reazione turca è arrivata per bocca del vicepremier: per Nurettin Canikli quelle del Papa sono «parole molto spiacevoli che indicano la persistenza della mentalità delle Crociate». Nella sua rozzezza, l’attacco denuncia due inadeguatezze. La prima riguarda il governo turco: tanto lontano dall’Europa e dalla liberal-democrazia; sempre più incapace di gestire il fronte interno e quello esterno e perciò sempre più aggressivo. La seconda riguarda i leader dei Paesi musulmani, privi di visione per i loro popoli e per il mondo, insteriliti dall’istinto dispotico, prigionieri dell’odio religioso. Si staglia, al confronto, la forza diplomatica della Santa Sede, che ha accolto il rientro dell’ambasciatore turco ritirato da Erdogan dopo l’aprile 2015 non con tattica autocensura, ma con la fermezza di chi ha una verità da dire e il coraggio di dirla. Soprattutto, riluce la forza profetica del messaggio di Francesco: a nulla serve la memoria se non porta alla riconciliazione. Dietro il Papa che dice «genocidio» si staglia la cima innevata dell’Ararat, dove si posò l’Arca quando si ritirarono le acque. La religione di chi evoca a sproposito le «Crociate» è in balia dei marosi. Guarda oltre al diluvio, invece, la fede di Francesco.