«Il Rosa, il Bianco, il Cervino Ogni cima ha il suo carattere»
Paesaggio sospeso Skyway, la nuova funivia del Monte Bianco, inaugurata la scorsa estate, che in quindici minuti porta da Pontal d’Entrèves a quota 3.500, praticamente sul tetto d’Europa. Dalla cabina girevole da ottanta passeggeri, si ammira la Valle Trail Valle d’Aosta, in programma dal 2 al 9 settembre prossimi, il grande evento di endurance trail running alle pendici dei quattro mostri sacri valdostani — Monte Bianco, Monte Rosa, Cervino e Gran Paradiso — continua imperterrito in quest’altra sua impresa (mica da poco) che gli ha permesso di vivere.
Raccontano che il suo stile di corsa sia un po’ imperfetto. Verissimo, se confrontato con quello di Mathieu, 19 anni per 1,83 di altezza, il primo dei suoi cinque figli: un predestinato. Il portamento un po’ ingobbito di Brunod senior è frutto delle infinte pietre angolari trasportate sulle spalle, roba da sessanta chili. A tremila metri d’altezza. Da dove lo sguardo abbraccia quasi tutta la regione. E se quelli del Forte di Bard, luogo simbolo della rinascita della Val d’Aosta, hanno fatto di tutto per convincerlo a ritornare alle gare, eleggendolo a testimonial della 4K, ci sarà più di un motivo.
B. B. al maschile è la Val d’Aosta. In amore, si sa, due che si prendono finiscono per assomigliare. Forse è per questo che le rughe di questo «ragazzone» sembra ricalchino la morfologia delle montagne di casa. Prendiamo il Cervino. «Sono salito con le scarpette da running, ma è troppo rischioso, non lo consiglierei a nessuno: per me è un picco sotempo della contemplazione. Persino in gara. «Il bello di non essere tra i primi è che apprezzi di più il paesaggio: quando scendi da Cogne, per esempio, sei immerso nel verde della sua vallata, mentre dalla parte di Gressoney, è più pietroso; verso Biella, è un susseguirsi di gradini naturali».
Magia pura. Come quella volta in cui stava lavorando a Cheney, 2.500 metri di quota, e vide passare una fila interminabile di camminatori. «Ho capito che in Val d’Aosta era maturata una nuova coscienza del camminare in montagna, privilegiando soprattutto tempi più lenti: vuoi mettere il piacere di fermarsi a bere l’acqua che sgorga dalla roccia, o tagliarsi una fetta di fontina, bevendoci su un bicchiere di rosso di Torrette».
E qui, l’atleta apre il cuore alla bellezza della Valtournenche, dove Bruno e sua moglie Enrica possiedono un alpeggio. Il rifugio d’amore. Quando non sono per castelli. Quello di Fénis è il preferito. Forse per via del museo del mobile valdostano. Anche se a casa Brunod più che l’arredamento, conta il paesaggio. «Mi bastano un camino, che per noi valdostani è sacro, e dove puoi cuocere il brodo per la zuppa col pane integrale, e una finestra». Se poi incornicia il Mont Barbeston, tanto meglio. Mani e corde Una fase della scalata al Cervino
parole di una malinconica canzone, che è diventata l’inno ufficiale valdostano. Erano anni che ad ogni ascensione ritrovavo quello splendore, che cresceva scintillando nel corso della giornata. Quella piccola terra ai confini estremi dell’Italia in una manciata di chilometri racchiudeva le vette più alte delle Alpi e a loro era intrecciata la mia vita, come quella di tanti transfughi dalle metropoli, che lassù avevano vissuto le loro più memorabili «hours of crowded life», come scrisse Whymper nella gloriosa giornata del 1865, in cui per la prima volta scalò il Cervino. La Vallée è plurale, un mosaico di paesaggi, di culture, di patois. Ma anche le montagne sono mondi diversissimi, ciascuno con un’identità sua propria. Il Bianco delle grandi vie di misto, un acconto di Himalaya nel cuore del vecchio continente. Il Rosa labirintico, sigillato dall’abbraccio dei suoi ghiacciai, nastri biancoazzurri increspati di crepacci e seracchi. Il Cervino solitario, un monumento megalitico piantato nel gran vuoto che la catena alpina sembra spalancare per lasciare svettare solo lui. E il Gran Paradiso appartato e fuori moda e incomparabilmente selvaggio, come i branchi di camosci e di stambecchi che scorrazzano sulle sue pendici. Ma a unire i magnifici quattro del Top of Europe è la vertigine rarefatta dei quattromila metri. Una terra impareggiabile che veleggia altissima e remota come un’imperturbabile Shangri-La dell’avventura, un mondo di ghiaccio e di roccia, antichissimo e nuovo, come alle origini del mondo.