La vertigine dei 4.000 in un paradiso di roccia
Una delle più belle estati della mia vita la devo al «Corriere della Sera». Per raccontare ai lettori i grandi «quattromila» delle Alpi (vette di quattromila metri e anche oltre), uno dopo l’altro, nel giro di poche settimane scalai il Gran Paradiso, il Monte Rosa, il Cervino e il Monte Bianco. In una mano la piccozza, nell’altra il taccuino degli appunti, salivo pensando che non esisteva un lavoro più bello di quello di scrivere di grandi montagne e di grandi passioni. Uscendo dalla parete nord del Gran Paradiso, uno scivolo di ghiaccio di seicento metri inclinato a cinquanta gradi, mi ritrovai di colpo nel sole del cono nevoso della vetta. Qui 4061 segnava l’altimetro. Poco lontano, sul torrione roccioso della vetta convenzionale, dove si erge la famosa statua della Madonnina, si accalcavano già le prime cordate della via normale. Ma qui sulla vera vetta, calcata solo dagli scalatori della est e della nord, non c’eravamo che noi. Mi voltai, lasciandomi alle spalle quel torrione, che pareva un affollato albero della cuccagna, e con gli occhi cercai le mete delle settimane precedenti: il Monte Rosa, con le sue molli ondulazioni glaciali; più a sinistra, inconfondibile, il triangolo striato di ghiaccio del Cervino; vicinissimo il Monte Bianco, che chiudeva l’orizzonte con il suo regale corteo di vette, frastagliate e bizzarre come sculture cubiste. «Montagnes valdôtaines / vous êtes mes amours». Mi ritrovai a ripetere tra me le