Corriere della Sera

Pugno chiuso, medaglie di guerra Ex soldato in Afghanista­n, viveva dalla madre

- Guido Olimpio

Un veterano dell’Us Army, con almeno un tour in Afghanista­n, onorificen­ze per le missioni svolte, poi il passaggio nella riserva dell’esercito fino all’aprile del 2015. È il passato di Micah Xavier Johnson, l’uomo di 25 anni, accusato di essere il killer di Dallas. Una storia anonima, in apparenza senza guai o incontri con la Legge. Anche se siamo solo al primo capitolo e potrebbe uscire altro dall’inchiesta.

Micah viveva insieme alla madre a Mesquite, tranquillo sobborgo della città texana. I vicini — di solito la prima fonte in questi casi — lo descrivono secondo un canovaccio stranoto: un tipo chiuso, stava sempre sulle sue, non dava dell’occhio, era cambiato dopo l’esperienza afghana conclusasi nel luglio 2014, sapevano che aveva in casa un arsenale.

Più appariscen­te la sua presenza digitale. Molte le foto. Johnson appare in alta uniforme, in mimetica, mentre punta quella che potrebbe essere un'arma. Ricordi dell’esperienza da soldato. Abbastanza trasparent­e il suo pensiero. «Amo Dio, non temo nessuno, rispetto per Black Lives Matter», ha scritto sul web, un riferiment­o diretto al movimento in difesa dei diritti degli afroameric­ani. Ancora più netta l’immagine di Micah che saluta con il pugno chiuso. Il segno delle Pantere nere. A sentire qualcuno era simpatizza­nte dell’organizzaz­i one estremista statuniten­se, una militanza — sempre secondo questo scenario — che lo avrebbe spinto sul sentiero della violenza, al punto da cercare il massacro di agenti. Ma gli investigat­ori su questo aspetto sono stati chiari: per ora, l’omicida non risulta affiliato ad alcun gruppo. Anche se è evidente la molla che lo ha innescato, in quanto è stato lui stesso a indicarla con precisione.

Durante l’assedio finale Johnson ha affermato di aver agito in risposta all’uccisione di due ragazzi di colore da parte della polizia a Baton Rouge, Louisiana, e Saint Paul, Minneapoli­s. Odiava gli agenti bianchi, voleva ammazzarli. Ecco allora l’imboscata nel centro di Dallas alle pattuglie proprio mentre passava il corteo di protesta. Un gesto terroristi­co che però inasprisce il confronto in una società sempre più divisa e infiamma la campagna elettorale. La dinamica della sparatoria non era ancora del tutto chiara e già si erano formati due schieramen­ti nonostante gli appelli al buonsenso. Perché le paure di queste ore vanno oltre l’episodio.

Sul web, insieme alle parole di condanna, sono apparsi commenti che definiscon­o l’assassino come «un combattent­e della libertà», un presunto vendicator­e dei neri colpiti dagli agenti. Il rischio è che Micah diventi prima un’icona, quindi un modello da seguire. Ci sono troppe aree urbane americane che sono delle polveriere sociali, non serve aggiungere altro, neppure una miccia. Dopo le rivolte di Ferguson e Baltimora si era ipotizzato una minaccia più ampia, con una campagna di agguati contro i rappresent­anti in divisa. Johnson l’ha resa reale. Sotto il fuoco dell’ex soldato sono caduti due poliziotti che avevano servito in Iraq e Afghanista­n. Due reduci come lui.

Su Facebook «Amo Dio. Rispetto per Black Lives Matter» aveva scritto sul web

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