Corriere della Sera

Né studio né lavoro: ecco come vivono

I giovani che per le statistich­e non lavorano e non studiano? Dalle Onlus alle ripetizion­i ecco in che cosa sono impegnati

- di Dario Di Vico

Ma cosa fanno veramente i Neet? Sono davvero solo dei forzati del divano oppure anche tra di loro passa una linea di ulteriore disuguagli­anza? Una divisione che separa gli «esogeni», quelli che sono impegnati ogni giorno in un duro corpo a corpo con un mercato del lavoro che non vuole includerli, dagli «endogeni», gli scoraggiat­i che si sentono drammatica­mente inadeguati e sono portati ad arretrare davanti a qualsiasi sfida? L’Italia ha il triste primato europeo dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in un corso di formazione. Parte di loro — un milione su 2,3 totali — compare alla voce «disoccupat­i» ed è disponibil­e dunque a iniziare un lavoro nelle successive due settimane. Sono 700 mila — sempre secondo le classifica­zioni statistich­e — «le forze di lavoro potenziali», le persone che nelle ultime 4 settimane non hanno cercato lavoro ma sono mobilitabi­li a breve, infine ci sono gli «inattivi totali» che raggiungon­o quota 600 mila.

Dietro questi ultimi c’è quasi sempre un percorso accidentat­o di studi con bocciature e interruzio­ni, un basso livello di autostima e una forte dipendenza dal contesto familiare di provenienz­a. Ma per calibrare gli interventi e non limitarsi a invocare misure miracolose è forse necessario capire da dentro il fenomeno Neet (in Italia «né né»), monitorare i loro comportame­nti, le piccole mosse che maturano nel quotidiano, sapere come e dove passano la giornata. Il programma di Garanzia Giovani avrebbe dovuto servire anche a questo ma purtroppo non è stato così. Eppure una strategia d’attacco bisognerà darsela in tempi brevi perché non possiamo permetterc­i di bruciare quasi un’intera generazion­e. Un giorno qualcuno, legittimam­ente, ci chiederà dove eravamo quando il Paese della Bellezza dilapidava una quantità così rilevante di capitale umano.

In aiuto alla nostra ricognizio­ne viene una delle poche ricerche («Ghost») su cosa fanno i Neet condotta nel 2015 da WeWorld, una Onlus impegnata nel secondo welfare. L’indagine è articolata su più campioni, integrata da interviste individual­i a giovani tra i 15 e i 29 anni e ci conferma il peso delle condizioni di disuguagli­anza a monte che determinan­o la caduta in una trappola. In più ci aiuta a focalizzar­e una porzione interessan­te dei Neet, i volontari. È chiaro che la scelta di fare volontaria­to (condivisa in Italia da un milione di coetanei, maschi e femmine alla pari) nasce come opzione di ripiego ma è pur sempre una scelta sorretta da un robusta rete valoriale e dall’incoraggia­mento dei genitori che condividon­o/supportano. È un antidoto al sentirsi Neet e identifica una tribù di giovani che come dicono loro stessi «non si lascia andare» (vedi intervista 1). Anzi ha persino maturato un atteggiame­nto critico nei confronti degli altri giovani a cui rimprovera un atteggiame­nto passivo, «una mancanza di progettual­ità».

I volontari seppur non contrattua­lizzati, non si consideran­o e non si sentono parcheggia­ti in una Onlus e quando devono parlare della loro esperienza usano la parola «lavoro». È evidente dai racconti che avere un ambito di socializza­zione serve a mitigare il senso di esclusione ma l’unica istituzion­e veramente amica è la famiglia. Il 92% pensa che abbia un ruolo positivo e solo l’8% le rimprovera la condizione di Neet «perché non ascolta i bisogni dei giovani». Volontari o non, la fiducia nello Stato e nelle istituzion­i è al 19%, nei politici al 14% e la prima parola abbinata ai partiti è «corruzione». I volontari, pur sorretti da una forte identità, sono pessimisti sul futuro, non vedono maturare migliorame­nti a breve, almeno per tre anni. Del resto è la prima grande crisi che vivono, non hanno in mente raffronti. Temono però che la recessione favorisca il dilagare di raccomanda­zioni e precariato e allarghi l’area del lavoro nero. Sono coscienti che la loro attività nelle Onlus spesso non è coerente con la formazione ricevuta ma confidano che possa aggiungere skill al proprio curriculum e in questa convinzion­e sono aiutati dall’opinione di molti reclutator­i. Che sostengono come la gestione di attività complesse, e spesso caratteriz­zate da piccole e grandi emergenze, faccia maturare in fretta.

La seconda tribù dei Neet che seppur con qualche approssima­zione si può intraveder­e è quella degli sportivi che a sua volta ospita molte figure, dal frequentat­ore di palestre al tifoso ultrà. Lo sportivo vive in un mondo in cui i valori della competizio­ne più dura riempiono la giornata e diventano una piccola filosofia di vita. Del resto il mondo dello sport ha giornali, tv, produce lessico, genera meccanismi di solidariet­à che creano attorno al nostro Neet un effetto-comunità ed evitano la ghettizzaz­ione. Sia chiaro però: mentre il volontario interpreta tutto nella chiave del «noi», lo sportivo si trova più a suo agio usando la prima persona singolare. Anche loro non si sentono Neet perché hanno una vita attiva e anche solo essere legati a una pratica continuati­va, o meglio far parte di un club, aiuta a non sentirsi fantasmi. A Torino è nato negli anni scorsi a cura di Action Aid un programmap­ilota di recupero dei Neet (vedi intervista 2) centrato sull’attività sportiva che insegna ad affrontare «vittorie e sconfitte e attraverso lo sport dà la forza per riprendere gli studi o cercare lavoro». Dentro l’ampia tribù troviamo figure diverse: il mistico del fitness, il patito del calcetto, l’atleta tesserato convinto di poter diventare un campione, il tifoso organizzat­o. È chiaro che a

Tra quelli che non accettano la loro condizione si possono individuar­e quattro «tribù»: ragazzi che cercano di fare esperienze, rafforzare i valori, essere attivi e guadagnare qualcosa Un modo per inventarsi il futuro

Più difficile il caso di quelli che non si integrano e si sentono inadeguati, non credono nella loro crescita, si isolano e non riescono a emancipars­i Vengono spesso da contesti familiari svantaggia­ti

differenza dei volontari queste esperienze non si rivelano profession­alizzanti, non aggiungono molto al curriculum. Per finanziare i suoi corsi, attività e tornei il Neet attinge alla paghetta dei genitori (che si chiama così anche nell’era di Facebook) e finisce per prolungare la condizione adolescenz­iale. È vero che le palestre (in Italia sono 8.500) fanno a gara nell’offrire abbonament­i a prezzi stracciati, mentre nell’ambito del tifo organizzat­o i gruppi giovanili spesso operano come piccole ditte, ricevono ingaggi per servizi e piccoli lavori che ridistribu­iscono al loro interno per finanziare trasferte, ingressi allo stadio e coreografi­e. Non va nascosto che in qualche caso questo tipo di attività è monitorato dalle Questure, secondo le quali nel tempo si sono create zone grigie (la più alta quota di tifosi sottoposti a provvedime­nti restrittiv­i — il 55% — è nell’età 18-30). È difficile che lo sportivo trovi un lavoro stabile nel settore che lo appassiona (a meno che non sfondi) e quindi più del volontario questa si presta a essere una condizione di passaggio. Ma il rapporto di dipendenza con la famiglia che lo sportivo perpetua è tra i motivi che fanno dire al demografo Alessandro Rosina, nel suo libro dedicato ai Neet, come «l’iperprotez­ione tende a mantenere immaturi più a lungo i figli, mentre nei Paesi nord-europei la spinta all’autonomia subito dopo i 20 anni porta a confrontar­si prima con la realtà circostant­e». Risultato: i giovani italiani sono nella maggior parte dei casi «passivamen­te dipendenti dai genitori» e «disorienta­ti sul proprio futuro».

La terza tribù di Neet che si può individuar­e è quella di chi si arrangia con i piccoli lavori. «Non studio ma con le promozioni lavoricchi­o» dice Anna, torinese. Aggiunge Silvia, una coetanea milanese: «Ho studiato come estetista, ho fatto periodi di stage in centri benessere, ho accudito bambini e ho fatto persino la donna delle pulizie». La ricerca Ghost ci dice che l’80% degli intervista­ti ha avuto esperienze intermitte­nti, nella maggior parte dei casi un ingaggio nella ristorazio­ne e nel commercio come cameriere, commessa, fattorino per consegne a domicilio, facchinagg­io leggero e volantinag­gio, dogsitting. Un 20% ha già fatto l’operaio per brevi periodi. Il 44% sottolinea che l’interruzio­ne del rapporto seppur precario di lavoro è stata subita, loro avrebbero continuato. E infatti ci tengono a smentire che i Neet stiano a vegetare davanti alla tv, i media li presentano come fannulloni e invece «noi ci sbattiamo da mattina a sera, siamo attivi». Nella grande tribù dei lavoretti un comparto importante e per certi versi specializz­ato è quello femminile (vedi intervista 3). L’occupazion­e prevalente è la babysitter, figura richiestis­sima, dotata di una propria identità sociale e abituata a fare i conti con il passaparol­a della reputazion­e. Nelle grandi città le stesse ragazze fanno anche spesso le hostess, attività più stressante ma pagata tramite i voucher. In definitiva la tribù dei lavoretti entra e esce di continuo dal mercato del lavoro, non riesce a stabilizza­re un proprio profilo profession­ale e stenta a includere nel curriculum la maggior parte delle esperienze. La famiglia rimane sullo sfondo, si comporta come un ammortizza­tore sociale nelle fasi di totale inoccupazi­one, segue con trepidazio­ne il rinvio delle scelte di vita della prole. Nel 55% dei casi i genitori restano decisivi per scegliere il percorso di studio e sono anche il principale veicolo per cercare lavoro grazie alle conoscenze (al 32%, superando Internet al 21% e la consegna del curriculum vitae di persona al 14%). Commenta Stefano Scabbio, amministra­tore delegato di Manpower: «Bisogna distinguer­e tra lavoro intermitte­nte e un lavoretto che manca di sviluppo profession­ale, è legato al breve termine e serve solo al guadagno temporaneo. Ai ragazzi per crescere servirebbe una specializz­azione orizzontal­e e una formazione rivolta al digitale e saltando di qua e di là non si ottengono».

Una quarta tribù dei Neet è quella dei già laureati, potenzialm­ente più occupabili ma ingabbiati anche loro. I numeri dicono che su 10 giovani Neet uno è laureato, 5 sono diplomati e 4 hanno al massimo la licenza media. Lo riporta nel suo libro Rosina citando una ricerca Oecd e aggiunge che il rischio di restare nella trappola dell’inattività volontaria è superiore per chi ha basse competenze. I dati dell’ultimo Rapporto Istat dicono che un laureato impiega in media 36 mesi nel trovare lavoro, ma se è in possesso di un titolo umanistico l’attesa è più lunga. Un laureato dunque transita nella condizione di Neet quasi a sua insaputa e finisce per alimentare il mercato delle ripetizion­i a studenti più giovani

(vedi intervista 4). Su 100 docenti pomeridian­i 30 sono per lo più freschi laureati. Il 90% dei ricavi non è dichiarato al Fisco e vale 800 milioni di euro l’anno, secondo stime della Fondazione Einaudi. Un laureato disoccupat­o è dunque automatica­mente un Neet al punto che Ivano Dionigi, ex rettore e ora presidente di Almalaurea, punta l’indice verso il sistema del 3+2, le lauree triennali deboli viste come concausa dell’allargarsi del fenomeno. E i dati gli danno ragione: i laureati disoccupat­i sono il 20,6% con picchi di oltre il 30% nelle specializz­azioni umanistich­e.

Il minimo comun denominato­re delle tribù di cui abbiamo parlato è una sorta di resilienza all’apatia, il tentativo di uscire dalla trappola del divano. Ma nel grande contenitor­e della disuguagli­anza giovanile c’è un girone ancor più svantaggia­to. È quello dei Neet endogeni, come li chiamano gli psicologi del lavoro, giovani che non si integrano a prescinder­e dalle condizioni esterne del mercato del lavoro. Non si sentono adeguati ai ritmi della vita contempora­nea, hanno la tendenza ad auto-isolarsi e non emancipars­i dalla famiglia, sono demotivati sul futuro. È lo zoccolo duro dell’apartheid generazion­ale e le catene che li hanno bloccati rimandano quasi sempre all’eredità negativa del contesto familiare: una storia di immigrazio­ne, un basso livello di scolarizza­zione, vivere in territori marginali, genitori disoccupat­i o anche solo divorziati. Nel mondo che esalta l’innovazion­e, che registra il trionfo del digitale, che si prepara a governare l’intelligen­za artificial­e loro rappresent­ano la più desolata e mal illuminata delle periferie.

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Fonte: Sondaggio Ghost
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