Corriere della Sera

PERCHÉ LE BANCHE CI FANNO SOFFRIRE

C’è un po’ di esagerazio­ne e strumental­ità nel modo in cui la stampa estera parla dei nostri istituti di credito. Analisi impietose confondono i tanti che fanno bene il loro mestiere con i pochi che hanno infranto regole o dimostrato imperizia colpevole

- Di Ferruccio de Bortoli

C’è sicurament­e un po’ di esagerazio­ne e strumental­ità nel modo in cui la stampa estera parla delle banche italiane. Conoscendo i misfatti di grandi istituti internazio­nali (lo scandalo della manipolazi­one del tasso interbanca­rio libor, per esempio), alcuni giudizi sono decisament­e stonati. Analisi impietose confondono i tanti che nell’esercizio del credito fanno bene il loro mestiere, con i pochi che hanno infranto regole o dimostrato imperizia colpevole. Ma l’immagine all’estero, salvo poche eccezioni, è purtroppo questa. La stessa copertina dell’Economist, con quella sgangherat­a corriera tricolore sull’orlo del precipizio e il titolo Italian Job, affare italiano, non fa certamente piacere nonostante il settimanal­e sostenga, sulla materia, le ragioni del nostro governo in Europa. Possiamo chiedere a Handelsbla­tt, severissim­o, di applicare lo stesso metro di giudizio a Deutsche Bank, che «riposa» su una quantità stratosfer­ica di derivati, 14 volte il prodotto interno lordo della Germania. Il dissesto della Landesbank di Brema è un’altra spia della fragilità del sistema tedesco. Ma la realtà non cambia. Per salvare Monte Paschi di Siena — che, ricordiamo, oggi è in utile — liberare gli istituti dal peso dei crediti in sofferenza, mettere in condizione il sistema, anche con denaro pubblico, di affrontare al meglio i prossimi esami della Bce (gli stress test), bisognerà trattare a Bruxelles e a Francofort­e con chi nutre nei nostri confronti sentimenti non diversi.

Nel suo appassiona­to discorso all’ultima assemblea dell’Abi, l’associazio­ne delle banche, il presidente Antonio Patuelli, ha denunciato l’incostituz­ionalità del cosiddetto bail in. Ovvero le norme che subordinan­o un eventuale intervento statale a una perdita di valore, nell’ordine, per azionisti, obbligazio­nisti subordinat­i e senior e, se non bastasse, i correntist­i con più di 100 mila euro. Il governator­e della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha ribadito le sue critiche alla normativa europea scritta su misura dei più forti, ovvero i tedeschi. Ha ridimensio­nato il problema dei crediti deteriorat­i. Quelli in sofferenza ammontano a 87 miliardi, al netto delle svalutazio­ni, di cui 50 coperti da garanzie reali. Tutto giusto. Ma rimane il piccolo particolar­e che le abbiamo condivise anche noi le nuove regole, peraltro applicate, con perdite per gli azionisti e obbligazio­nisti, in numerosi altri Paesi. Questo fuoco di fila di eccezioni andava sollevato per tempo. Invece, come accade sovente in Italia, norme comunitari­e sono entrate nel nostro ordinament­o giuridico nel disinteres­se generale quando non nella colpevole disattenzi­one. Noi giornalist­i abbiamo le nostre responsabi­lità. Il cane, o il cucciolo da guardia del potere, si era assopito.

Il premier Renzi ha detto a Porta a Porta che la normativa sul bail in gli è «arrivata cotta e mangiata». E ha aggiunto, in questi giorni, che gli errori sono stati compiuti dai suoi predecesso­ri. Sicuro che non avrebbe potuto bloccarla nel febbraio 2014? Conoscere l’identità dei cucinieri distratti sarebbe opportuno. Un po’ di chiarezza, con qualche coraggiosa ammissione di responsabi­lità, non costituire­bbe un gesto doveroso nei confronti di risparmiat­ori e investitor­i? Non avrebbe una funzione preventiva per evitare futuri errori? L’economista Nicolas Véron, intervista­to ieri sul Corriere da Federico Fubini, ha accusato l’Italia di aver «posposto troppo a lungo» i problemi bancari nel 2014 e nel 2015.

Il peggior difetto della classe dirigente italiana è il conformism­o autoassolu­torio. La vicenda bancaria ne è una prova. Dopo la crisi dei subprime del 2008 (il crollo dei fondi immobiliar­i oggi suona sinistrame­nte simile), le reazioni dei governi sono state diverse. Molte tempestive e adeguate. Gli americani hanno usato fondi pubblici per salvare i loro istituti. Così è stato nel mondo anglosasso­ne. I tedeschi lo hanno fatto a piene mani (447 miliardi) finché le regole europee glielo hanno consentito e persino oltre. Gli spagnoli si sono affidati al fondo europeo. Cioè hanno messo a posto le loro banche anche con soldi nostri. Una beffa se si pensa che i guai di Monte Paschi nascono dal folle acquisto, nel 2007 per nove mi- liardi, di Antonvenet­a da Santander! Ci siamo cullati nella retorica nazionalis­ta che le nostre banche, non avendo esagerato con i derivati, fossero immuni. Ma il sistema non era immune dall’eccesso di credito, elargito con generosità prociclica, soprattutt­o nell’immobiliar­e, nei momenti in cui la prudenza non avrebbe fatto difetto. Dal 2008 a oggi l’Italia ha perso un decimo del reddito e un quarto della produzione. Ciò spiega la crescita delle sofferenze, ma non giustifica tutti i comportame­nti. Non assolve consiglier­i e dirigenti che hanno dato soldi alle persone sbagliate

con garanzie insufficie­nti o non si sono accorti della montagna di non performing loans che cresceva nei propri bilanci. O hanno coltivato qualche conflitto d’interesse di troppo. Un esempio fra i tanti: nel bilancio del 2002 del Monte Paschi, a pagina 157, si leggeva che i crediti a favore di amministra­tori della banca o di loro società erano stati pari a 2,7 miliardi. La lunga recessione non è un’attenuante per chi ha scommesso, sbagliando, su una ripresa annunciata come robusta e che avrebbe risolto il problema con un’espansione delle attività. E tanto valeva, nell’attesa, sottostima­re o nascondere un po’ di polvere sotto i tappeti.

I requisiti patrimonia­li richiesti dalla Bce sono certamente draconiani e a volte inspiegabi­li, ma è pur vero che l’ansia di adeguarli ha finito per spingere diversi operatori, nel silenzio delle autorità di regolazion­e, a infilare nelle tasche di ignari risparmiat­ori obbligazio­ni strutturat­e rischiose, come è accaduto per le quattro banche salvate lo scorso anno. Il caso più clamoroso è quello dei titoli Monte Paschi in scadenza nel 2018 con tranche minime da mille euro. Il continuo aumento degli accantonam­enti, oltre ad essere un segno di cautela, ha mostrato la difficoltà di valutare correttame­nte le sofferenze.

La governance degli istituti bancari italiani non è impeccabil­e. Gli scandali e le cattive gestioni che si sono succeduti in questi anni sono sempre stati il prodotto di uomini lasciati troppo soli al comando. E qualche volta osannati anziché controllat­i da chi era deputato a farlo. La sequenza è così folta, da Fiorani a Sonzogni, da Mussari a Zonin, da Berneschi a Faenza, da Bianconi a Consoli, da non escludere una debolezza sistemica della governance. Ruoli svolti male da presidenti, consigli, amministra­tori indipenden­ti, sindaci. Le eccezioni sono troppe. Una riflession­e comune, aperta e sincera, non guasterebb­e. Rinchiuder­si nei recinti corporativ­i o agitare la bandiera degli interessi nazionali, guardando l’erba del vicino che non è più verde della nostra, non serve a nulla. E non ci risparmia da sofferenze future.

Rinchiuder­si nei recinti corporativ­i non serve a nulla

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